Aprirò con una pedante riflessione: chi si ricorda il fortunato jingle / tormentone Blame Canada, cantato dagli adorabili e cafoni abitanti della ridente cittadina di South Park? Era il lontano 1999 quando Trey Parker e Matt Stone celebravano con un lungometraggio il successo planetario di uno degli show TV più geniali di sempre. Nel frattempo, Jeremy Greenspan e l’ex Johnny Dark, sostenuti da Matt Didemus si riunivano nella fredda Hamilton, Ontario, in un collettivo electro pop di amorevoli sfigati sotto il nome un po’ teen di Junior Boys. Allora la mia nozione di “Canada” era piuttosto vaga. Aveva a che fare con gli aceri, i parlanti francese, le giubbe rosse e la neve. Ascoltavo i Rush e pensavo che fossero fantastici ma che mancava loro qualcosa, un qualcosa che veniva però compensato da un qualcos’altro che c’era in più, un non so che addirittura di meglio rispetto al resto delle gloriose formazioni rock degli anni ‘70. E per la prima volta pensai che quel quid potesse essere il loro essere nati in Canada. E che cos’era questo Canada? La risposta allora fu – e in parte lo è ancora oggi nella mia testa – che il Canada è una sorta d’immagine riflessa, un ritratto sì, ma non fedele al 100%, degli Stati Uniti d’America. Gli Usa permettono al Canada di essere anche solo pensato; gli forniscono le categorie e gli strumenti per esistere. Ma queste stesse coordinate, una volta varcato il confine, vengono usate in maniera criminosa e perversa, ed ecco che dall’altro lato dello specchio emerge una figura nuova e difforme; un prodotto, una copia che fa le linguacce al suo originale. Gli Stati Uniti avevano ben donde di bombardare il suolo canadese nel film di South Park: gli amici di Trombino e Pomadour, con le loro mascelle volatili, rappresentavano con il loro semplice “esserci” un insulto diretto ai loro vicini, con quella voglia di distinguersi, di urlare a gran voce la loro non conformità alla grande patria di tutti gli standard.
La musica che si fa in Canada sembra rispondere alla stessa logica; si può considerare una lunga sequela di prodotti di serie B o una miniera di piccole gemme, e mi vengono in mente i Broken Social Scene, i Caribou, The New Pornographers, gli Holy Fuck… Tutta roba da addetti ai lavori. La mia opinione, emersa durante una chiacchierata mentre si aspettava che i Junior Boys comparissero sul palco del Lanificio, è che le band canadesi in qualche modo stanno agli USA come quelle scozzesi stanno all’Inghilterra – tentano con ogni nota di uccidere i rispettivi padri, usando però quegli stessi strumenti impolverati che avevano ereditato dalle rispettive e ingombranti famiglie. “Io non sono come voi, non diventerò mai come voi, andateveneaffancùlo!” dicono, ma poi salgono in soffitta a strimpellare con la Stratocaster appena ricevuta in regalo. Finché non crescono e perdono quella rabbia adolescenziale, ed è allora che scoprono quella serena e pacata attitudine che ha reso olimpiche band come gli Arcade Fire.
Non è il caso di fare paragoni, comunque, quando si parla di piccole realtà come quella in cui – e di cui – vivono i Junior Boys. I confronti li metterebbero in imbarazzo. Ma uno non può che ammirare il loro non coinvolgimento, il loro rifiuto di separarsi dal pubblico dei pochi (ma buoni) ascoltatori presenti al Lanificio. Dimentichi di aver piazzato bei singoli nelle chart con This is Goodbye, anzi, emozionati, increduli e grati al signore di trovarsi in tournee a Roma, suonano come se fossero ancora in quel garage dell’Ontario, fra BMX e synth di seconda mano – qualche amico stravaccato su un sofà sbrindellato come pubblico. Promuovere il loro ultimo disco – It’s all True (Domino, 2011) – non sembra una grande preoccupazione. A parte il doveroso ma trascurabile ultimo singolo Itschy Fingers e la chiusura enfatica e un po’ strascinata con Banana Ripple, le novità sono buttate lì un po’ come capita, eccezion fatta per la centralissima e strategica You’ll Improve me, forse il brano migliore del nuovo lavoro e fra i più riusciti della loro carriera. E’ evidente però che i momenti più alti si registrano altrove, con i cavalli di battaglia – suonati con trasporto per il pubblico e non per ragioni di marketing: Bellona, direttamente dal lontano esordio, le immancabili (e richiestissime) Double Shadow, In the Morning e Hazel, e una vasta esplorazione del repertorio ballate con Teach me How to Fly, Count Souvenirs e Like a Child. Ma il culmine di tutta l’esibizione è stata – a giudizio concorde fra me e l’amico Closer – la psichedelica Work, autostradale, cadenzato e assillante disco-tunnel che si balla nostro malgrado, con la stessa angoscia eccitante di quando capita di muoversi sulle altrui Idioteque e Blue Monday.
Nel dare un giudizio complessivo alla performance, purtroppo breve e non particolarmente intensa, mi ricordo d’un tratto che al Lanificio non si suona rock’n’roll e allora pace! We are entertained. D’altra parte, ammettiamolo, i Junior Boys possono essere tranquillamente seguiti ad occhi chiusi quando sono sul palco, così statici, umili e quasi impacciati, e potrebbe capitare di chiedersi allora perché non limitarsi all’ascolto con gli auricolari, avvolti nel teporino domenicale della trapunta. Ebbene, la risposta sta nella voce dell’impacciato frontman, che ama i suoi testi e lo dimostra con coraggio nelle interpretazioni, vincendo la timidezza e il complesso di inferiorità che gli deriva evidentemente dall’esser nato canadese. Se anche voi, come me, siete dei teneroni e amate la fanta-antropologia e gli studi sociali, riflettete bene su cosa significa essere degli artisti nati a nord delle cascate del Niagara e sostenete la scena canadese. I Junior Boys vi offrirebbero da bere e suonerebbero molto volentieri al vostro matrimonio se solo glielo chiedeste. Credo, fra l’altro, che stiano ancora aspettando davanti al locale che qualcuno gli dia un passaggio per tornare a casa. Show them some love!
Trivia: i Boards of Canada sono di Edimburgo.
1 commento
closer
7 dicembre 2011 a 21:23 (UTC 1)
fra scrive poco…scrive poco ma quando lo fa…