a cura di Marco Valchera
Che piaccia oppure no, Lana Del Rey è stata, senza dubbio, uno dei personaggi musicali di questo 2012: emersa con dei video musicali fatti in casa, che sono circolati su Youtube per mesi, la fama l’ha raggiunta con la bella Video Games e con l’album di debutto Born To Die (che contiene il singolo omonimo e canzoni di discreto successo, come Blue Jeans), fino ad ora il quarto bestseller di quest’anno, con un bottino (seppur magro) di quasi due milioni e settecento mila copie. Per cercare di mantenere alto l’hype intorno a questa carismatica artista, è stato pubblicato un Ep di otto tracce, dal titolo Paradise, come compendio dell’album d’esordio. Lo stile rimane sempre lo stesso: testi interessanti da bad girl oppure di critica al mondo dorato e patinato dello show business con trame sonore che ricalcano un gangster dream pop, a metà strada tra Nancy Sinatra e basi hip hop, affidate alle sapienti mani di Emile Haynie. Ma Lana tenta anche nuove strade, ricorrendo a produttori ed autori diversi, tra cui spiccano il gotha della musica americana Rick Rubin (ZZ Top, Jay-Z, Johnny Cash) e Rick Nowels (Dido, Sia, Lykke Li).
L’apertura è affidata al bel singolo Ride, produzione di Rubin, e co-scritta insieme a Justin Parker, è una ballata indie pop, in cui Elizabeth Grant (questo il suo nome di battesimo) mostra tutta la sua nostalgia con un’interpretazione roca tesa a marcare frasi d’effetto (I’m tired of feeling like I’m fucking crazy). Il video girato per la canzone è un vero e proprio corto di dieci minuti, assolutamente da vedere: dopo un lungo monologo sui temi della felicità e della libertà, ritroviamo l’artista, insieme ad un gruppo di motociclisti stile Easy Rider, a vivere un’esistenza da out cast, accompagnandosi a uomini molto più maturi di lei. La seconda traccia, American, si riallaccia maggiormente allo stile di brani quali Summertime Sadness o Carmen: il tema ruota attorno all’interesse nei confronti della cultura americana, incarnata, musicalmente parlando, da Bruce Springsteen ed Elvis. Musicalmente coinvolgente, è una delle migliori dell’ep, con synth e archi, vero e proprio marchio di fabbrica della Del Rey. Cola ha suscitato numerose reazioni in rete per il suo testo estremamente provocatorio: definendo il sapore della sua vagina simile a quello della Pepsi, sono nate le solite critiche dei benpensanti, infastiditi dal continuo ricorrere a tematiche sessuali nella musica odierna. C’è, secondo me, una grande differenza: la sessualità di Lana è ben diversa da quella del pop da classifica, e non esiterei a definirla, per lo più, sensualità. Cola ha la propria ricchezza nel testo: una confessione d’amore per uomini più vecchi e un invito ad abbandonare freni inibitori (I know your wife that she wouldn’t mind). Body Electric, quarta della tracklist, richiama Walt Whitman, grande poeta della letteratura americana: il titolo fa, infatti, riferimento, alla poesia I Sing The Body Electric. Di nuovo si gioca su continue allusioni, spaziando da Marilyn a Gesù, su una base di sintetizzatori e archi, che, inizia a mostrare qualche cedimento e troppe somiglianze ad altre canzoni della sua produzione. Blue Velvet, cover del celebre motivo portante dell’omonima pellicola di David Lynch, è frutto della collaborazione con una nota marca di vestiario, per cui Lana è divenuta modella. Il brano è perfettamente riuscito: Lana, mostrando il suo grande carisma, riesce a mantenere, comunque, inalterato quel mood un po’ depressivo delle sue interpretazioni. Gods And Monsters non mi convince: il ritornello è dimenticabile, e difficilmente distinguibile dal resto della canzone, tirata un po’ troppo per le lunghe, senza un vero perché. Il finale ci regala due perle: la rivisitazione di Yayo, traccia già presente nel primo omonimo album, sotto nome Lizzy Grant, ritirato dal mercato digitale dopo poche settimane, e Bel Air. Yayo sostituisce la chitarra acustica dell’originale con un piano, ma a sottolineare la forte differenza con la versione precedente è la prova vocale, forse in alcuni momenti un po’ troppo eccessiva, in netto contrasto con la vulnerabilità delle parole (I need you like a baby when I hold you). La conclusiva Bel Air è la mia preferita: una vera e propria sorpresa rispetto allo stile abituale, si tratta di una ballata sorretta da un elegante pianoforte, cupa e notturna.
Label: Polydor
Anno: 2012
Tracklist
01 – Ride
02 – American
03 – Cola
04 – Body Electric
05 – Blue Velvet
06 – Gods and Monsters
07 – Yayo
08 – Bel Air
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