Roma, 7 dicembre 2012. E poi arrivano quei live che desideri vedere da sempre, di quelle band che hanno contrassegnato la tua adolescenza e non solo, che non sai nemmeno se esistono più. Una band che ho amato sin dai primi ascolti e che non ho mai più abbandonato, che risveglia in me sensazioni, il ricordo d’attimi, i pomeriggi trascorsi in camera ad ascoltarli. L’unico timore: “…cazzo! Ma adesso che avranno sessant’anni, verranno a suonare con le stampelle!?”.
Notte piovosa nella capitale, saranno passate da poco le 22 e la fila al botteghino è copiosa; all’appello vecchi e giovani dark/waver. Appena entrato, quasi subito ha inizio lo spettacolo; per l’occasione, ad accompagnare i Chameleons, ci stanno due band di casa molto benvolute, ovvero i Winter Severity Index e i Date At Midnight.
Entrambe le band, chiaramente, sono figlie del dark anni 80. I Winter Severity intonano canti lugubri, melodie ipnotiche, tempi marziali e atmosfere tenebrose;
i Date At Midnight invece si contraddistinguono per un sound più stridente: canto malato, chitarra dissonante, basso pulsante. Ballate che a volte privilegiano tetre armonie sincopate e a tratti liberano istinti rock’n’roll e voodoobilly, e riff hard-rock.
Un cambio palco interminabile ci divide dai nostri beniamini e il pubblico fremente reclama Mark Burgess. La sirena dell’intro di Monkey Land e una nube di fumo scenico ci avverte che la band sta per conquistare il palco e non appena dalla coltre la sagoma di Mark a braccia alzate prende forma, le urla degli astanti accolgono il front-man. Line-up leggermente rimaneggiata che vede presenti solo due dei componenti della formazione originale. Dopo i saluti di rito, la band inizia a scandire i suoi pezzi.
Il loro sound è un marchio di fabbrica inconfondibile che ha edificato un autentico connubio tra il dark-punk e la psichedelia fatto di arrangiamenti surreali. I Chameleons hanno realizzato una perfetta simbiosi con gli umori della loro generazione realizzando una vera e propria epopea spirituale. L’elemento più originale della loro musica è stato lo stile chitarristico fatto di eterei riverberi e che ha dato l’abbrivio a quel genere musicale noto come dream-pop, ma che, a mio modesto parere, ha dato un contributo non indifferente anche allo shoegaze.
I Chameleons snocciolano uno dopo l’altro i loro classici: Swamp Thing, Monkey Land, Up the Down Escalator, Perfume Garden, Soul in Isolation, Singing Rule Britannia ecc..
Mark Burgess sembra quasi non essere stato scalfito dal tempo, tiene il palco senza tentennamenti, da vero trascinatore; si dimena come un ossesso, il suo basso pulsa come un trapano tessendo delle trame vigorose sotto i riverberi celestiali delle chitarre. Il pubblico è estasiato, canta a squarciagola e non disdegna nemmeno qualche accenno di pogo; alcuni si attagliano sotto il palco per sbirciare la scaletta dei pezzi, ai piedi di Mark Burgess. Second Skin, acclamato costantemente dai fan, è il classico dei classici che chiude un’intensissima ora e mezza. I Chameleons escono di scena, ma l’ambiente surriscaldatissimo che li acclama li fa desistere e così ci concedono tre ghost-bis tra i quali la famigerata Don’t Fall.
Emozioni a tutto spiano per questa serata che, come immagino tanti altri, non dimenticherò mai. L’unico rammarico è stato quello di non aver potuto ascoltare pezzi come Nostalgia e View From a Hill. Grazie alla Sputnik per averceli portati.
Photo by Carlo Alberto Riolo
1 commento
Sputnik
11 dicembre 2012 a 20:08 (UTC 1)
Grazie a te Alberto (e a MusicZoom) e a tutti i partecipanti!