a cura di Marco Valchera
Regina Spektor incarna perfettamente quel movimento indie-folk che si è sviluppato per lo più in questi ultimi anni. Di origini russe, ma trapiantata negli Stati Uniti, la sua musica, accompagnata da testi spesso fantasiosi e fiabeschi, è legata al pianoforte, strumento suonato con grande originalità e avanguardia rispetto alle più classiche e tradizionali cantautrici. What We Saw From The Cheap Seats è il suo sesto album, che segue vere e proprie perle underground come Soviet Kitsch (2004) e Begin To Hope (2006) (che conteneva il singolo tormentone Fidelity) e il più commerciale e pop Far (2009). Accompagnata alla produzione da Mike Elizondo (Dr. Dre, Eminem, nonché lo splendido Extraordinary Machine di Fiona Apple), l’artista sembra volere, questa volta, unire le sue due anime: quella più ricercata da folk singer sui generis e quella, invece, più attenta al pop da classifica. What We Saw From The Cheap Seats non esce immune da questo conflitto: alterna momenti ispirati ad altri fatui e leggeri e, di certo, non aiuta neanche il fatto che si tratti di una raccolta, un po’ raffazzonata, di canzoni scritte durante la sua intera carriera e che erano già presenti in rete in versioni live e, in molti casi, migliori rispetto a quelle registrate in studio. Verrebbe da pensare che gli episodi meno riusciti siano quelli più recenti, soprattutto perché anche Far mostrava qualche segnale di crisi d’ispirazione.
Ad emblema di ciò si prendano i due singoli finora estratti: Don’t Leave Me (Ne Me Quitte Pas), già presente nel secondo album Songs (2002), è una marcetta con tanto di trombe e sax finali, insipida se non irritante, mentre All The Rowboats (un consiglio: cercate il video su Youtube) è una piano song cupa ed originale, che emula lo stile della Apple, a cui la Spektor è sempre stata associata. Inoltre alcune delle canzoni sono talmente brevi da risultare quasi irrisolte: la finale Jessica, l’unico vero inedito dell’album, è una pallida demo alla chitarra acustica; Ballad Of A Politician, sulla corruzione del mondo politico, un numerino senza capo né coda; Oh Marcello, invece, convince nella sua struttura pianistica spezzata e sghemba e nell’imitazione dell’accento italiano. La Spektor che più mi piace è al centro dell’album: Firewood con il suo incedere lento e un’interpretazione vocale da brividi, Patron Saint, con il suo continuo alternarsi e riavvolgersi, la ballatona How, dai toni forse un po’ troppo sguaiati, la già citata All The Rowboats, e Open, la mia preferita, delicata e sofferta, in cui il senso di soffocamento delle liriche (I am in a room I’ve built myself/Four straight walls/One floor/One ceiling/And day after day, I wake up feeling) si traduce con l’ansimare della cantante.
Le classifiche di vendita hanno dato ragione a Regina: What We Saw From The Cheap Seats si è posizionato in alto sia negli Usa che nel Regno Unito, ma l’album rimane riuscito a metà, soprattutto per chi, come me, ricorda canzoni come Après Moi, Ode To Divorce o 20 Years Of Snow.
Label: Warner Bros
Anno: 2012
Tracklist
01 – Small Town Moon
02 – Oh Marcello
03 – Don’t Leave Me (Ne Me Quitte Pas)
04 – Firewood
05 – Patron Saint
06 – How
07 – All The Rowboats
08 – Ballad Of A Politician
09 – Open
10 – The Party
11 – Jessica
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