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dic 28

The Mama Bluegrass Band

The Mama Bluegrass Band. Photo by EriBluff

a cura di EriBluff

Sabato 15 dicembre. Milano, zona Navigli. Via Gola, 12. È una di quelle sere dove il gelo ti si conficca nella testa e le dita delle mani fanno fatica a muoversi. Apro la porta del locale. Nidaba Theatre, prima volta. Rimango affascinata dal posto. Un locale dalle pareti che diffondono vita vissuta, tappezzate di locandine di grandi annate. Sul muro del palco primeggia quella di Tom Waits dagli occhi che guardano giù. Un giù dove ora sono riposti, in attesa di essere svegliati, gli strumenti del gruppo che sto per andare a intervistare.
The Mama Bluegrass Band. Ci dirigiamo nello scantinato del locale. Ed ecco che la danza verbale ha inizio.

 

  • Già nel nome del vostro gruppo “the Mama Bluegrass Band” è possibile capire il genere che fate. Il bluegrass ha fondamentalmente quattro pilastri: il blues, il brother duet, la musicairlandese e il white gospel. Nella vostra musica primeggia particolarmente uno di questi quattro generi o vi sono presenti tutti in egual modo?

Francis: La cosa che ci piace del nostro gruppo è di non essere “straight”. Ognuno di noi infatti
ascolta molteplici tipologie di musica, ognuno ha i propri gusti e questo si riflette molto sulla
musica che facciamo. Tutte le nostre influenze musicali conducono al folk.
Marco: Non siamo dei seguaci di cultura unicamente bluegrass. Quando suoniamo sul palco vi è una
miscellanea di influenze che arriva da mondi completamente diversi.

  • Ho visto che nei vostri tre dischi riprendete canzoni diventate epocali di Johnny Cash e Pete Seeger, attualmente ci sono artisti secondo voi che meritano particolare attenzione?

Francis: Oggi abbiamo diversi validi artisti, come possono essere Ben Harper, Norah Jones, mi
chiedo però se tra cinquant’anni ce ne ricorderemo come ci ricordiamo oggi dei Beatles o dei
Rolling Stones. Abbiamo oggi tanti gruppi, ma sono tanti gruppi leggeri.
Fondamentalmente è questo il problema. È anche bello però che ci sia sempre più gente che faccia
musica.
Marco: C’è anche da dire però che molti gruppi vengono scoperti solo dopo. Negli anni ’70 erano in
pochi a comprarsi un cd di Tom Waits, mentre adesso ce l’hanno in casa quasi tutti quelli che fanno
musica. Le cose vengono spesso scoperte a distanza di vent’anni. Magari adesso c’è qualcuno che
noi non conosciamo o che noi sottovalutiamo, e tra vent’anni verrà fuori che era un genio che ha
cambiato la storia della musica. Rino Gaetano è stato sottovalutato fino a metà degli anni ’90 mentre
ora è stato molto riconsiderato. Le cose vengono fuori dopo. L’importante è che ci sia fermento, che
ci siano posti dove suonare, locali, musica nuova e dischi. Bisogna continuare a far crescere la
musica.
Bisognerebbe riuscire a creare un substrato di cultura musicale sul quale far crescere le giovani
band. Altrimenti, senza una solida base, quello che ne viene fuori è un singolo che può far anche
successo, ma che finirà sicuramente nel dimenticatoio.

  • A proposito di “continuare a far crescere la musica”, in Italia secondo voi c’è un freno nei confronti della musica o, al contrario, sentite una propensione a incentivarla?

Davide: C’è una situazione che non funziona. A Milano, il Nidaba Theatre e altri due o tre locali
organizzano spesso concerti interessanti, anche all“l’Una e trentacinque” a Cantù c’è spesso molto
fermento, ma purtroppo questo tipo di locali li conti sulle dita di una mano. Quando vuoi sentire
buona musica hai unicamente quei tre o quattro posti dove andare.
In estate per fortuna quasi tutte le sere ci sono manifestazioni all’aperto, tendoni e feste, ma per tutto
il resto dell’anno non c’è quasi nulla.
È tutto da rifare.

  • Il titolo del vostro primo disco Beer, boots and cigarettes fa venire in mente i precetti di una vita vissuta “on the road”. Avete mai fatto viaggi per scoprire la tradizione che cantate?

Davide: I veri viaggi sono quelli dei tour. Il Beer Boots and Cigarettes lo avverti quando devi
viaggiare per un tot di chilometri insieme. Abbiamo fatto diversi tour (in Norvegia, nelle Marche
etc.) ed è proprio in quelle occasioni che lo si sente. Alberto è il massimo rappresentante del Beer,
boots and cigarettes, quando partiamo fuma, guida e fa dieci km con un litro di gasolio fumando
infiniti pacchetti di Marlboro.

  • Ho visto un vostro video su youtube che iniziava con una scena del film “Per qualche dollaro in più”. Quanto il cinema ha influenzato il genere di musica che fate?

Alberto: Sicuramente ha influenzato, ma più che la musica che facciamo, ha influenzato lo stile di
vita da cazzari che abbiamo. A volte si sale in macchina per andare a suonare e ci sembra di essere
catapultati, all’improvviso, in un film di Tarantino.
Marco: …nelle migliori ipotesi è un film di Tarantino, in quelle più reali in uno di Bud Spencer o di
Monicelli degli anni ’70.
Francis: Siamo così attaccati a quello che ascoltiamo e a quello che vediamo che inevitabilmente
tutto ciò diventa parte fondamentale del modo di comunicare tra di noi. Il cinema non influenza
tanto la nostra musica, ma influenza il nostro legame. L’influenza sulle nostre canzoni dipende più
che altro dai gusti musicali che ognuno di noi ha.

  • Qual è il momento migliore della giornata per ascoltare la vostra musica?

Senza ombra di dubbio quando si è in viaggio.

  • Ultima domanda: Siete “folk” anche nella vita quotidiana? Con “Essere folk” intendo il vivere una vita vissuta in toto.

Davide: Credo che ogni genere di musica abbia delle influenze sul modo di vivere che si ha. Se, per
esempio, suoni blues tendi ad avere una concezione della vita particolarmente triste, se invece sei
folk, te ne fotti di tutte le avversità che si incontrano ogni giorno e ci ridi sopra, fai il liscio e te le
fai scivolare via.

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