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gen 16

Steve Bernstein & Millenial Territory Orchestra @ Teatro Manzoni

Steven Bernstein

a cura di Christian Panzano

Se esiste un dio della negritudine, porta certamente il nome di Bernie Worrell. Una leggenda vivente del funk, colui che introdusse il sintetizzatore di basso elettrico per tastiera nella musica moderna rendendo stregato il sound dei Parliament -Funkedelic. lo si trova al fianco di un Steven Bernstein panciuto e svagato che suona la tromba a coulisse dai tempi dei Sex Mob e vedi vedi è transitato nei Lounge Lizards . Per essere precisi è la Millenial Territory Orchestra di Stevie ( progetto parallelo ai Sex Mob ) con special guest le incredibili dita del nostro amico Bernie. Mi infilo, consapevolmente ricurvo e imbastardito dall’atmosfera, nel teatro Manzoni verso le 11.00 di una domenica mattina milanese, che fredda i nasi e rifiuta le reazioni cerebrali. È sorprendente notare come il pubblico sia così eterogeneo per questo spettacolo che si preannuncia il migliore della rassegna “aperitivo in concerto”. Poi con la dovuta calma mi è palese come ci si stia avvicinando al miracolo di Sly Stone ( e del funk dei Parliament a ben vedere ) che fu quello, antesignano nel music businness , di rivendicare un antirazzismo per l’umanità intera. Bernstein dirige egregiamente, muovendo quei braccini roboanti, additando ora un sassofono o un violino, ora un trombone e dando loro i tempi giusti di entrata e di attesa. Worrell puntella le armonie con una visione d’insieme incredibile e una serenità compositiva straordinaria. Il resto lo fa appunto la Millenial Territory Orchestra che a ben vedere è un ensemble, sollecitato ad improvvisare, di maghi uno più duttile dell’altro ( effettivamente ciò che colpisce di questo progetto è la duttilità ). Ma l’elemento magico si direbbe sia la capacità di Bernstein di cucinare un piatto ricco di free jazz ( Lounge Lizards ), avant-garde (Spanish fly, John Zorn, Sakamoto) un po’ di tradizione americana shakerata, il tutto salato con punte funky, quando si spinge su ritmi serrati, soul quando si tende allo stile libero ( spesso crea incipit  lunghi dove trovano ampio sfoggio i musicisti ). Ne esce fuori un orchestral jazz virgolettato, inciso di tanto in tanto, che non ha pari e rende elettrizzante il matinèe. I nostri, in un’oretta e mezzo, rivedono l’operetta essenziale di uno dei più grandi compositori americani che fu Sly Stone con la sua famiglia stonata ed effettivamente l’occhio reagisce di sbieco quando alla nonnetta visonata e tempestata di brillocchi cade l’opuscoletto che indica lo spettacolo successivo (Nicole Mitchell) e il tipo rasta con le vans ai piedi gentilmente allunga la mano verso terra e compie il gesto del boy scout (dopo una settimana di lavoro nella grande Milano sembra  essere giunti a Woodstock solo che il pubblico è già appollaiato su poltrone di velluto rosso vermiglio e si è tutti al chiuso) Si parte con “stand” cantata meravigliosamente da Sandra st. Victor, poi arriva il turno di “everyday people” rifatta con la voce di Dean Bowman ( un omone nero di due metri con una voce che è un incrocio fra James Carr e Demetrio Stratos) ed è sempre lui fra pause divertenti di Stevie che racconta di come Gianluca Petrella, suo amico, gli insegna a dire tortellini, oppure quando fin dall’inizio dedica lo spettacolo a Federico Fellini, al cinema e agli spaghetti senza ritegno, dicevo è sempre lui, Dean, che attira l’attenzione del pubblico offuscando un po’ Bernie con decisi colpi di belting. Il pubblico si scalda e inizia a tenere il tempo – c’è un tizio dietro la mia nuca ( lo sento che respira greve ) che ad ogni diplofonia di Dean emette un lamento come fosse stato punto dalla taranta in una notte d’estate o meglio in preda a un principio di spiritual in una chiesa di Albany negli anni 30 – poi un lungo solo di Worrell (a questo punto le lacrime della gente seduta non sono timide ) che lascia incantati e con le labbra umide come baciati dalle parole “prestami la tua mente funky, in modo che io possa giocarci” …e in realtà si sta assistendo alla performance di uno che la sa lunga su come è nata la black music da James Brown a George Clinton e ce l’hai lì a portata d’orecchio. Defilato, Bernstein guarda  la band, soddisfatto del suo ruolo di maestro e aizzatore di popolo (ci prova col pubblico, ma il pubblico appunto non è quello di Woodstock) con in tasca qualche assolo di tromba e contrappunti semplici e soul che si infilano tra un quattro quarti e la richiesta di downbeat all’inizio di ogni battuta. Il resto della MTO è a un livello di perizia tra i più raffinati e godibili che ci possano essere ( attuali Sex Mob, turnisti d’eccezione di varie epoche ed età ). Si inframezza con If you want me to stay, Dance to the music, una splendida Que serà serà ( voce struggente di Sandra ) e il finale con Sing a simple song cantata in due con fiati, violino contrabasso, Stevie e Bernie a spingere sui lick di Munisteri ( chitarra ) e sulle battute di Wollesen ( batteria ). E se Sly fosse stato vivo? Beh avrebbe rubato i brillocchi alla vecchia ottantenne, le vans al rasta e sarebbe stato probabilmente ad ascoltare Worrell applaudendolo. A fine concerto gli avrebbe stretto la mano e poi dolcemente, avrebbe attraversato il foyer, sarebbe uscito respirando l’aria madida della Milano bene, se ne sarebbe andato via, non si sa bene dove, a cercar fortuna.

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