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gen 21

Sapio/Capiozzo/Mecco@ Arci Biko

Luca Sapio. Photo Silvana Celentano.

a cura di Christian Panzano

L’ultima volta che ho visto Luca Sapio dal vivo, faceva il bullo con i suoi commilitoni Quintorigo nella rassegna di Zoo Station, allestimento perfettissimo in quel di Bicocca, stazione Greco di Milano. Era il 2010 e faceva un caldo fottuto. Non avrei mai immaginato che quel testone laziale catapultato prima nell’America più profonda e sudicia e poi ritornato fra noi altri, potesse sprigionare tanta forza, tanto spessore artistico, tutto il peso storico che la soul music ha rappresentato per anni. Parlo di una serata trascorsa in maniera vivace all’ARCI Biko in zona barona a Milano per l’appunto, il 18 corrente mese. Gli organizzatori ancora una volta ci hanno stupito per la scelta del loro palinsesto.  Ma dicevamo di Sapio. Dopo english garden, la love story, usiamo un eufemismo, tra Luca e i Quinto batte le ali per un ultimo volo. Quella fame di cui si innervarono finì semplicemente. Esatto, finì e di colpo pure. E pensare che io ci avrei sperato nei nuovi Quintorigo , ma ormai è storia data in pasto ai cani. Loro ritornarono a conquistar pubblico già allenato d’orecchi, lui ripiombò negli States e provò ad infilarsi tra la coscia sinistra di Christian Capiozzo, l’ascella destra di Mecco Guidi, tanto per dar solo fastidio e per convincerli a formare un trio spaccaossa, canta loro un  “Papa’s got a brand new bag “ dai toni sublimi (converrete con me che sarebbe stata proprio una bella scena). Il duo viene convinto dal nuovo sacerdote a diventare un trio e così ha inizio la faccenda. Inutile ricordare quanto questi ragazzi ci diano dentro da anni, quanto fatichino a trovare spazi e quanto sia difficile farsi riconoscere e apprezzare. Sta di fatto che rappresentano il meglio di quello che il music business indipendente italiano oggi esporta in ambito rnb e dintorni e se non fosse per loro probabilmente oggi parleremmo dell’italian soul unicamente per Mario Biondi, massimo rispetto. Il moniker è schietto, ma vedessero lor signori dal vivo quanti sono a suonare! Vogliamo fare un paragone ? Direi i Mar-Keys. No Luca, non emozionarti se la strada che si può percorrere per arrivare a paragonarti a un Otis Redding o a un Joe Tex o addirittura a James Brown è breve. Un po’ ci provi anche gusto, dì la verità ? Sta di fatto che la serata inizia per gli abituè e anche per i neofiti, con uno negroni sbagliato, per poi continuare con mojito o una caipiroska o con una chiara, ma gli artisti tardano ad arrivare e la gente dopo un’ora scalpita, i bicchieri si svuotano e si sta a giocare tutti con ghiaccio e cannucce colorate . A una certa, si vede il trio arrivare in fretta e furia con i componenti imbardati di eskimo e ancora sudati di autostrada di sicuro. Ci mettono comunque poco a salire sul palco e a prendere posizione con gli strumenti. Quasi tutti in completo nero e camicia bianca, qualcuno azzarda anche la cravatta. Noto subito i pantaloni di Sapio troppo lunghi rispetto al normale e sinceramente fanno ridere, però dal momento in cui il frontman arpiona il microfono parte tutta un’altra musica. Ma come fa Luca a cacciar fuori tutta quella grinta black,  quel graffio funky e quegli urli a richiamare i bridge, a pretendere un’energia quasi religiosa da tutti ? La tracklist segue l’album d’esordio del trio (Who knows) uscito precisamente un anno fa. Di tanto in tanto ci inseriscono qualche cover ben fatta che fa ballare i corpicini in sala. Ciò che sorprende è la limpidezza, la sincerità di tutti a spingere come una macchina ritmica, come un esercito di combattenti per la causa del soul. La sezione fiati arrangiata da Antonio Padovano è splendida. Capiozzo in batteria e Matteo Pezzolet al basso si scambiano fiducia a vicenda e l’hammond infine dà a tutto un picchiato psichedelico che è come l’ultimo bacio prima dell’addio. I fraseggi e l’acustica di Larry Guaraldi seguono il tempo non allontanandosi mai dal resto della band. La voce di Luca è strumento a parte. Lo è sempre stato fin da quando coverizzava Purple haze coi Quintorigo o quando diede vita agli Sheng o agli Accelerators o quando fece parte delle ultime formazioni Area. Ma questa volta Luca sacrifica il suo strumento per un’esigenza collettiva. In America si arrivò a glorificare anche politicamente personaggi della southern soul music. Addirittura divennero icone politiche se non sociali, soprattutto dopo la morte di M.L.king. Erano tempi in cui spesso non bastava la parola d’ordine di una far out come Angela Davis, perchè serviva il sigillo  del padrino Brown. Anni in cui tra politica e musica si arrivò a confini così ristretti tanto da non vederne differenza, anni in cui alla morte di Otis Redding tutto si perse nel blu.  Il soul che si presta bene a cantare Sapio e i suoi amici di scorribande, non ha per ovvie ragioni quel peso. Anzi non ce l’ha per niente e forse non è neanche preteso. La loro musica tende a riscoprire storie disperse negli oceani, storie magari che pochi sanno, sorde vite di un’anima più sottile, meno caotica e storicizzata. Il loro incontro è consigliato a chi passa distrattamente l’occhio sulle loro tracce, consigliato a chi ha problemi di cuore sia per chi ce l’ha rotto, sia per chi ce l’ha troppo gonfio d’amore. Consigliato a chi del dramma si fa beffa, ma ci rimane male se l’anima non diventa blues quando serve. Consigliato a chi non demorde mai proprio come questa big band d’antan che sa sfornare fiori d’arancio e perle terse dal cielo stellato, poco prima che venga neve.

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