a cura di EriBluff
Gallarate (Varese), giovedì 10 Gennaio 2013 ore 11.
Una mattina dal sapore di folk americano e racconti di vita vissuta.
Piazza Garibaldi n.6, di fronte a me la porta di un piccolo e storico negozio di dischi “Carù Dischi”. La apro e mi ritrovo catapultata in un mondo tappezzato di copertine di vinili e impregnato di passione e cultura musicale allo stato puro.
Mi avvicino al bancone. Paolo Carù davanti.
Guardando il negozio e guardando Paolo mi rendo subito conto che vi è una fortissima complementarietà, ogni disco, ogni album, ogni copertina presente là dentro non è un qualcosa di asettico posizionato sullo scaffale per essere
venduto, ma è molto di più. È come se ogni album fosse una piccola cicatrice impressa in Paolo.
Egli ha fatto della musica la propria ragione di vita, spingendosi spesso anche oltre il confine nazionale per scovare artisti che il mondo aveva da offrire, tirandoli fuori da quel potenziale dimenticatoio in cui piombono spesso bravi artisti purtroppo rimasti sconosciuti.
Nel 1980 fonda la rivista Buscadero grazie alla quale nutre la sua sete di curiosità e conoscenza musicale.
Ora è davanti a me pronto per essere intervistato e per alimentare questa volta la mia sete di curiosità musicale sulla sua vita fieramente vissuta.
- Ho letto diverse tue interviste e ho potuto notare che hai da sempre impostato il lavoro sul tuo gusto musicale piuttosto che su criteri incentrati sul mercato. In una società come quella di oggi credi sia ancora fattibile fare una scelta di questo tipo?
Assolutamente si. Nonostante sia una scelta contro corrente, una scelta che magari dal punto di vista commerciale non rende, è l’unico modo per riuscire ad avere una certa esposizione a livello di giornale che lavori. Noi lavoriamo per la nicchia, per gli appassionati, essendo noi stessi degli appassionati. Nel momento in cui proponiamo un disco è perché ci piace, non ci importa che sia famoso o che si possa vendere, capita che ci emozioniamo perché esce il nuovo disco di Terry Allen piuttosto che il disco di Sting. La nostra filosofia è questa, e non è solo la mia ma di tutto il gruppo con cui lavoro. Questo mese abbiamo messo come disco del mese gli Arbouretum, un gruppo hard diventato ora un po’ più morbido. È stata una cosa assolutamente folle, in pratica abbiamo lanciato una sfida per i nostri lettori, in quanto si discosta da quello che solitamente ascoltano.
Bisogna azzardare nel fare cose innovative, evitando di proporre sempre nomi classici o nomi spesso commercialmente sicuri. Noi siamo stati i primi a livello mondiale ad aver dato la copertina a Tracy Chapman nell”87 e i primi a livello mondiale ad aver dato la copertina a Norah Jones nel febbraio ’02. Abbiamo avuto i loro dischi in anticipo, ci son piaciuti e non ci interessava se fossero conosciuti o meno, ci piacevano e questo era
quello che importava. Ovviamente questa filosofia non è il massimo per le vendite, però va bene così,
ormai esistiamo da più di trent’anni e abbiamo una gran bella nicchia che ci supporta e che si fida di noi.
- In questo negozio di dischi avrai avuto contatto con svariati e diversificati gusti musicali. Che concezione hai della cultura musicale italiana e credi che col tempo sia cambiata assopendosi agli standard televisivi?
Per il grande pubblico purtroppo si. Io scelgo cosa vedere e anche tu sicuramente farai lo stesso, ma molti non
scelgono, molti subiscono passivamente quello che gli viene messo sotto gli occhi. Purtroppo anche all’estero le televisioni non brillano, però, a differenza della situazione italiana, offrono una diversificazione. Prendi per esempio il David Letterman Show. È nato come una trasmissione nazional popolare, dove viene presentato di tutto, da Lady Gaga a Springsteen. È come una sorta di trampolino di lancio per chi non è nessuno e un trampolino assodato per chi ha una fama e un seguito. Da noi non c’è una cosa del genere, da noi bisognerebbe piuttosto chiudere varie reti perché hanno causato un abbassamento mentale dei gusti della gente. Per fortuna esiste internet che, per chi è un po’ sveglio, permette ormai di venire a conoscenza di moltissime informazioni. È l’oro e il ferro, con i suoi pro e i suoi contro: se cerchi puoi sapere tutto ma il più delle volte, essendo una cosa
talmente piena di notizie, va a finire che nessuno approfondisce più. Ci sono ovviamente anche persone che si interessano, a prescindere dai lettori di Buscadero o di riviste di settore, che hanno le proprie idee e i propri gusti, che vengono a cercare per esempio il disco dei Mumford & Sons e che cercano le
novità di ogni genere. Gente attiva musicalmente esiste, non siamo tutti ignoranti, per fortuna.
- Come dicevamo prima, lo sviluppo di internet ha influito molto sul modo di approcciarsi alla musica. Un tempo c’era meno informazione ma più approfondita di adesso. Con internet è come se si avesse una conoscenza di ogni cosa, ma solo superficialmente, avendo tutto a portata di mano, viene meno l’interesse di approfondire. Secondo te esiste un modo per ricreare questo interesse e riportare soprattutto le nuove generazioni verso una sana e solida cultura musicale?
Adesso c’è troppa informazione per cui non approfondisci, leggi velocemente e scorri via. Negli anni ’60, quando ho iniziato a lavorare con mio padre, trovare le cose era veramente una scoperta perché non c’era informazione e quello che scoprivi te lo saresti ricordato a vita in quanto veniva letteralmente scolpito in testa. L’aspetto positivo di internet è che ti permette di scoprire gruppi come possono essere i Crooked Brothers o chi per sé e di fare sapere l’esistenza dei loro dischi, prima non sarebbe stato possibile. Per esempio i 13th Floor Elevators, un gruppo psichedelico texano degli anni ’60 attivi dal ’66 al ’69, noi li abbiamo scoperti solo nel ’72, tutto questo perché non c’era informazione. Il materiale locale faceva fatica ad arrivare, o andavi in Texas e compravi il disco o avevi la fortuna di leggere un giornale texano, sempre se ne parlava, dato che la musica anche negli Stati Uniti, o come in altre parti, è molto regionalizzata, nel senso che se non sei un successo rimani locale. Eppure questo è stato un gruppo che poi ha avuto una buona fama e l’abbiamo scoperto negli anni ’70 quando è uscito “Nuggets”, una compilation innovativa contenente singoli di gruppi per lo più allora sconosciuti. La situazione oggi è differente, abbiamo molta informazione che però spesso non viene approfondita. Bisognerebbe fermarsi, ascoltare e capire se ciò che si ha davanti è bello o no, cosa che noi di Buscadero facciamo quotidianamente, quando tiriamo fuori un gruppo sconosciuto, ci fermiamo, lo ascoltiamo, lo valutiamo, alcune volte magari non vale niente, altre invece vale. Quasi tutti i giorni scoviamo qualcosa di nuovo. Oggi esiste un mondo sotterraneo al di fuori dei giornali, al di fuori di internet stesso, al di fuori della stampa grossa o delle televisioni, bisognerebbe però riuscire a farla diventare ancora più grossa, e per fare ciò però dovrebbero intervenire i media al fine di creare delle nicchie di musica di un certo tipo.
- Tra le moltissime interviste che hai fatto a grandi artisti, qual è stata quella che ti ha emozionato maggiormente?
Anni fa ho intervistato Natalie Merchant quella dei 10,000 Maniacs. È stata una bellissima intervista, una persona davvero molto umana. Un’altra intervista molto bella è stata quella a Ani di Franco nel Gennaio 2012. Abbiamo fatto un discorso su di lei, sulla politica e sulla musica, alla fine si è complimentata, succede ogni tanto, quando l’intervista va fuori l’intervista e diventa un dialogo, non dico amichevole, ma quasi. Una volta mi hanno mandato a intervistare Tom Waits in California, è stata un’esperienza stupenda. Sono entrato in Santa Rosa, in un albergo dove c’erano delle stanze adibite per le varie interviste, appena sono entrato mi chiese se volessi un the e me lo fece, questa è una cosa che pochi al mondo possono dire di aver vissuto. Lui è una persona gentilissima, ovviamente se lo incontri e gli chiedi un autografo magari non te lo fa, però professionalmente nell’intervista è stato assolutamente disponibile e gentile, devi fare domande un po’ decenti, io gli feci una domanda che mi
avevano dato dei colleghi, ma che non convinceva neanche me, gliela feci e subito dopo avergliela fatta, vidi la sua espressione e gli dissi: “scusa, non rispondere”. Un’altra bella la feci a Mark Knopfler che andai a intervistare in giornata a Londra, mi pare nel 2002, sono andato al mattino e son tornato alla sera, l’aereo mi costò 900 euro.
- Ci sono gruppi o cantautori attuali italiani a cui daresti particolare attenzione?
Sicuramente c’è un buon movimento e anche interessante. Io sono legato principalmente a musica che ha dei connotati abbastanza stranieri, prendi per esempio Massimo Bubola secondo me è uno dei più bravi compositori italiani in assoluto. Apprezzo molto anche i Cheep Wine, un ottimo gruppo rock di Pesaro. Nel circuito milanese ci sono diversi cantanti interessanti, per esempio Pacifico non era male poi un po’ si è perso, proprio per dire un nome, comunque c’è fermento e questo è quello che importa. Il problema è che dal culto locale a venire fuori è durissima. Anche negli Stati Uniti o in Inghilterra è dura, però lì a differenza dell’Italia, è leggermente più facile
in quanto c’è un aggancio Stampa superiore. In Inghilterra infatti passi dall’anonimato alla notorietà spesso in modo molto immediato, per poi a volte ritornarci con la stessa repentinità. Per esempio Jake Bugg, un ragazzino di 16-17 anni che ha fatto un disco e di cui ne stanno parlando tutti come il nuovo Dylan (con cui per me non c’entra nulla), ha avuto una campagna stampa mondiale, potrebbe avere la stessa notorietà di Dente, per fare un nome italiano a caso, che qui conosciamo in pochi, mentre di questo Jake Bugg ne parla tutto il mondo. Questo è dovuto all’importanza che gli inglesi danno al nuovo, che per certi versi può essere considerata una buona
cosa, per altri invece questa propensione rischia di portare alla notorietà di tutto, a volte anche nomi terrificanti.
- Ultima domanda, sei felice delle scelte che hai fatto durante la tua vita?
Io sono convinto di quello che ho fatto, ho trovato una persona, mia moglie Anna, che mi segue in capo al mondo a vedere concerti, ed è bellissimo. Due anni fa siamo andati a vedere Tom Petty and the Heartbreakers a Darien Lake che sta a casa di Dio, vicino a Buffalo, in mezzo a niente, sono 100 Km in mezzo a un posto disperso. Insieme andiamo ovunque, è difficile trovare una donna che ti segua in queste cose e io sono stato davvero molto fortunato.
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