Sono tornati. La band più ribelle di motociclisti neri senza motocicletta del decennio appena trascorso è tornata a fare sul serio. Hanno superato la parentesi blues di Howl, in cui, per dirla con le parole di Rick Maymi dei Brian Jonestown Massacre un sera a Milano, giocavano a fare Bob Dylan con risultati più o meno soddisfacenti; hanno attraversato tra mille difficoltà il periodo più difficile della loro carriere musicale, con il deludente Baby 81 e l’incomprensibile The Effect of 333, stroncato senza pietà dalla critica; ed hanno pure chiuso una pagina importante del loro passato con l’addio di Nick Jago, batterista non molto fondamentale che aveva accompagnato la band dal suo esordio in quel ormai lontano 2001.
Per questo un misto di scetticismo e di nostalgia ha accompagnato il loro ultimo lavoro, Beat The Devil’s Tattoo, uscito quest’anno per la Abstract Dragon, stessi sentimenti con cui è stato accompagnato il loro tour europeo. Subito dissipati dall’ascolto del disco e dalla visione di uno dei live più fenomenali a cui ho assistito questo mese. Due ore tiratissime con volume esagerato, tanto movimento sul palco, sudore e talento, rumore e passione, quanto basta per fare ottimo rock. Peter Hayes sembra un po’ più dimesso, Robert Levon Been invece ha ripreso il comando delle operazioni a tempo pieno ed i risultati si vedono. Beat The Devil’s Tattoo lascia da parte le lagne a cui ci avevano abituati i BRMC negli ultimi tempi: il mantra blu che accompagna l’omonimo singolo di apertura lascia pochi dubbi al riguardo. Per colpire il tatuaggio del demonio, bisogna essere decisi ed in Conscience Killer volume e velocità aumentano per arrivare all’obiettivo con la massima forza possibile: la sessione ritmica è appannaggio di Leah Shapiro, passata da queste parti qualche anno fa per suonare in piedi i tamburi insieme ai Raveonettes. La cosmica Bad Blood rinverdisce i fasti psichedelici del gruppo, rievocando pezzi come In Like The Rose ed Awake : una brezza violenta che ti sferza il viso e la voglia di restare aggrappato al mondo per non cadere definitivamente giù. War Machine invece rallenta di botto per assestare di potenza una botta allucinante: anche qui lo schema era già stato utilizzato in Ha Ha High Babe, più metallica e meno blueseggiante. A proposito di blues, Sweet Feeling affonda nel delta del Mississippi e viene lasciata alla dolce corrente che la trasporterà nel mare nero di petrolio del Golfo del Messico: grazie British Petroleum, i posteri ti saranno debitori.
Si respira un’aria nuova su Evol, che non è quella che degli antesignani Sonic Youth: ci gira intorno Robert prima di lanciare I don’t wanna feel love again. Le sferzate di basso tornano protagoniste in Mama Taught Me Better. Su Ryver Stix si avverte un po’ di calo nel mordente del trio, mentre su The Toll ecco l’ospite Courtney Jaye cimentarsi con il lato dylaneggiante di Peter, armonica compresa. Ma io gli voglio bene lo stesso. Forse la seconda parte del disco fa qualche passo indietro, Aya ne è la conferma, Shadow’s Keeper sembra voler invertire la tendenza con soluzioni cristalline al ritornello mai sperimentate finora dal gruppo di San Francisco. Long Way Down sembra invece spuntare fuori da Howl, mentre Half State chiude il disco con classe ed un certo languore. Restano due bonus come 1:51 e Martyh che potrebbero prefigurare il futuro dei BRMC nei prossimi anni.
apr 08
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