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mar 06

Si, viaggiare

Tom Lynch

a cura di Christian Panzano

Le elezioni politiche creano sempre una lesione cerebrale che dopo qualche giorno si rimargina, però il transfert è quasi certo. Nel mio caso è una ferita di rancore, rabbia e solida furia ribelle. Una voglia di sbattere al muro chi dice che questo sistema di cose può andar bene così, che tutto deve seguire un progetto, guarda te che novità. Un piano che non ha staffe su cui reggersi, uno scopo che è una chimera, un grido invisibile nel buio, tante parole in un vento di tramontana a sparigliare le litoranee desolate stracolme di manifesti elettorali semistrappati. Sono amare le giornate, ma nella crisi , come diceva Einstein, bisogna reagire e farsi valere, senza trovare scuse. Spesso si finisce per essere fraintesi, circondati da facce attonite e circospette di amici che sollecitano un commento, un giudizio rancoroso su una vita che già rende tutti inaciditi. Quando rivinse Prodi io mi ritirai nel dolce canto di Anais Mitchell , quando rivinse Berlusconi mi scoprii nei vicoli segreti della città ad ascoltare vecchi vinili dei Count Five e punk scuciossa. E ora? Cosa potrei mai fare? alla parolaccia politica preferisco viaggiare e mi viene in aiuto bandcamp. Sul momento si cerca per l’appunto una risposta alle cavità dell’insofferenza e poi sono le note stesse, magari di una chitarra slide o di un cello o di una voce calda a tenerti in vita col defibrillatore di fianco per ogni evenienza. Tom Lynch è un ragazzo proveniente da Huston e il suo Hurricane ricorda proprio quel Ryan Adams pre spalla agli Oasis. Un Adams che ci inebriava con una Oh my sweet Carolina. Ricorda una forza che l’America non ha mai perso e che l’Italia non ha mai avuto e cioè la speranza che un fiume come il Rio Grande può aver trasmesso a milioni di vite umane, l’alito fisico di migliaia di legati suggestivi a scompaginare i libri di storia nei sottoscala, gli amori blu nei sotterfugi, le luci grigie nella penombra. Sette linee di tepore e pensieri raggrumati, molto classici, ma agrodolci sotto la cute. Polvere rossa da tex mex soffiato, country blues e americana leggeri da alabama shuffle, un folk bruno come tirato fuori dal cilindro di una Laura Marling. Tom Lynch vuole essere una stella solitaria come il suo Texas d’altronde. Godetevela.

Alana Henderson

Facciamo un salto geografico, essendo costretti giocoforza a salpare dalla costa statunittense più vicina con timone a dritta e attraccahiamo il vascello sulle coste dell’Irlanda di Alana Henderson. Esordisce l’anno passato con una traccia, Song about a song, che passa inosservata anche a chi di bandcamp ne fa un pilastro di semilibertà. In Wax & wane si procede verso uno stile tra la weird ricercata e (pop)ular lievemente precotto, ma è l’unico seguito degno di nota a quel virgulto di Tom Lynch. Backing vocals precisi e viola con cello a ritmi cadenzati e cameristici. Fragilmente Nick Drake prima del triciclico. Il suo folk potrebbe ricordare un Andrew Byrd o un Glen Hansard, insomma si bazzica la simpatica brigata, ma è la voce che è appropiatissima e singolare. Il lavoro in studio e quella semplicità sulla scorta della tradizione rendono tutto assolutamente generoso e caleidoscopico. Da Dungannon meglio fare una sosta in qualche pub sulla via per una guinness spumosa, prima di partire per un viaggio che potrebbe sconcertare.

Paule Mackrous

Arriviamo a Montreal, la semiboreale. Attenti, ci si potrebbe far del male tra un ostacolo e l’altro. Attraccando nel porto poi bisognerebbe andare oltre la modernità dei grattacieli e intrufolarsi nella vecchia città, fatta di serate fumose e vaudeville da strapazzo, arie conosciute su cui una voce femminile intesse un canto di nostalgia e cuori spezzati, tristemente lontani. Paule Mackrous è cresciuta probabilmente qui, tra chi evitava di mischiarsi al futuro subito dopo la grande guerra e chi è ricaduto nel passato più inenarrabile. Storie di fortune sfacciate, glorie d’altri tempi, scheletri che rivivono una storia giovane e randomica. Tra una attitudine psichedelica alla Josephine Foster e dream pop acustico fatto di sotterranei e vino sfuso, il suo Roads to home prova a rimettere tutto come era prima ordinando le pile di carte e scatoloni di viandanti pronti a timbrare un biglietto di sola andata per le terre di nessuno. Confesso che il giro fantasmagorico può far venire un’emicrania cosmica. Poco male, Questo do it yourself, ma mica tanto, del folk anglo americano è servito a capire come la politica che viviamo e ci circonda, poco ha a che fare con il cuore e la musica. Tra il semianonimato si nascondono certe perle di giovani autori con un fardello in mano e le maglia di ricambio nella valigia pronti a concedersi alla vita. In fondo basta poco per vivere. Basta saltare la prima staccionata a misura di braccio, portarsi su il grugno e le gengive, caricarsi di una bisaccia ampollosa pronti per un nuovo viaggio. Dove? Fate voi.

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