a cura di Christian Panzano
Simona Darchini in arte Gretchen mi ha sempre entusiasmato, non tanto per la sua voce in bilico tra cantautorato e dissonanze oblique e ferrose, e nemmeno per la musica che tira fuori dal cilindro sotto forma di speaking dolente e frattaglie di epiche metropolitane, no. Eppure è tanta roba già tutto questo. Basterebbe ascoltare una canzone come Fockus, probabile poesia da guerriglia urbana scritta tre anni fa e inserita in Gretchen pensa troppo forte suo esordio. La cantautrice si svena per esprimere con solennità criptica l’acume mantrico delle sue interiora riportando alla luce due tratti distintivi. Il primo è il senso di entropia musicale come frastuoni di iati chitarristici e cantati sempre sul bordo di una sindrome da cluster. Il secondo è un lavoro perfetto e ineccepibile in fase di lavorazione dell’album. Produzione, missaggio e rifiniture tecniche sono passaggi di lima capaci di rendere anche un grido, un urlo primordiale, in canto globale e sistematico, coeso, quasi pastorale. Fra i nomi più coccolati dalla critica nostrana, Simona negli anni non ha mai dovuto autocensurarsi per sembrare qualcun’altra agli occhi di chissà chi, e si è sempre comportata come se ciò che produceva, venisse cesellato per se stessa, nella penombra di un gioco di specchi, prendendosi e prendendo in giro, per noia o per passione, chi lo sa. All’inizio sembra di sentire un muro di sguardo sonoro che lubrifica i padiglioni vivisezionando algoritmi di raffinatezza e basserie distorte. Questo è l’effetto fisico e finale prodotto dall’ascolto di Post-krieg, suo ultimo lavoro uscito con Dada records e Blinde proteus. La conferma è venuta proprio dalle parole di Simona che da ora in poi preferisce far morire Gretchen. Senza preoccupazione alcuna rimarrà solamente Simona Darchini, ma con quale altra ragione sociale? Staremo a vedere. Post-krieg richiama segmenti letterari di alta schiatta, per inciso Antonin Artoud e il suo Eliogabalo: l’epoca dell’esplodere caotico, riletto come simbolo del conflitto interiore dei principi. Sin dal prologo l’intento è garbato, muscoloso e sostenuto, con intonazioni, echi di brivido, timbri e registri di una certa levatura che decontestaualizzano l’industrial. Un riferimento italico potrebbero essere i vagabondaggi post-punk dei Disciplinatha nei sentieri meno cupi dei primi anni ’90 o sempre dello stesso frangente temporale, i primi Marlene Kuntz sfiorando leggermente rare prove di rock in opposition che farebbero venire in mente certi Cassiber meno urlanti. Ciò detto, pur muovendosi in ambiti collaudati, Gretchen riesce a ricamarci sopra un tocco personale creando droni in backdrop e tappeti cardiaci che preparano la tavola per un banchetto di poetica irriverenza. Hydrophobia concede scossoni alla catarsi sinfonica dell’incipit di In e della title track, spostando la lancetta dei bpm. Enoch riporta alla calma, alla gracilità del suono battente per poi scoprirsi vulnerabile, colpa di alcuni archi lasciati senza guida spirituale. Laicamente sacerdotale. il resto è strutturato su distici di acid folk, ora plumbei, ora ascendenti da far venire brividi lombari. Una prova d’eccezione dove il sentire d’arte è strettamente collegato alla letteratura e a un rigore d’avanguadia che certifica l’ottima qualità di legna messa ad ardere. A fuoco lento, ma sempre vivo.
Anno: 2013
Label: Dada records/Blinde proteus
Tracklist
1- In
2- Post Krieg
3- Hydrophobia
4- Enoch
5-Pro(e)vocation
6- Everted I
7- Everted II
8- Everted III
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