Mi ritrovo a giocare a calcetto con un artista e manco lo sapevo. Jean un giorno dalla sua borsa di calcetto tira fuori un cd di nove tracce e mi dice di recensirlo. Io penso “questo è pazzo”, ma tra un dribbling ed una traversa mi rendo conto che c’è qualcosa di strano nell’aria. E non solo perché stiamo perdendo e sto giocando da schifo, ma anche perché appena torno a casa sento il disco e strano a dirsi mi piace. Strano a dirsi perché non bazzico questa roba qui, tra tastiere e fisarmoniche, e perché appena fatto una ricerca più approfondita sulla nostra grande madre rete mi accorgo che gli Oniric sono un gruppo di tutto rispetto. Formatisi nel 2005 dall’incontro artistico di Gian Vigo (Giampiero Timbro, voce, chitarra, basso e pallone) e Carlo De Filippo (synth, tastier e piano), hanno prodotto questo graziosissimo gioiello per la label spagnola Caustic Records.
L’intro drammatico di Once Upon A Time in the Cabaret ci proietta immediatamente nel mondo nottambulo ed animato da strane creature girovaghe degli Oniric. Ad attenderci il singolo Blessing, con cui Gian Vigo ci accoglie aprendoci le tende del suo circo musicale ambulante, accompagnato dalla dolce voce di Simona Giusti, che collabora alle parte vocali. Ottimo arrangiamento ed un sapore da western ballad di morriconiana memoria. Gringo, tu il gioco lo conosci. Io ancora no, quindi andiamo avanti. Dagli States alla France il passo è breve, ed Un Gris Bord parla la lingua dei galli, quella cara a Serge Gainsbourg, o forse più a Bertrand Cantat ed ai suoi Noir Desire. Forse per questo spesso si parla degli Oniric a livello di neo folk e finiscono intervistati su giornalacci gotici che poi finiscono sulle mensolette di casa di Carlo (per poi essere ritrovati dagli stessi intervisutati tra la sorpresa generale).
The echoes of the sky si riverberano anche sull’Appio Tuscolano: e quindi eccoci qui ad ascoltare una fisarmonica in preda alla sindrome da cabaret, con le tastiere di Carlo De Filippo che al posto dei tasti hanno delle nuvolette da pigiare. La marcia (nuziale ) di Leather Fire ha un senso di drammatico acuito da un synth alla Dario Argento: bellissima l’uscita che più che un tramonto sembra un alba nuvolosa che tarda ad arrivare all’orizzonte. Come in un romanzo di Asimov, Space Farewell dà l’addio a Rotor mentre si allontana dal sistema solare alla ricerca della Stella Vicina, il tutto supervisionato dalla Torre di controllo in cui gli Air si divertono a creare la progenie che colonizzerà l’universo. Progenie che poi un giorno si ritroverà nella sua cameretta a toccare con mano i ricordi della sua infanzia perduta, come in Ophelia’s Portrait, strumentale più dolce di una Sacher. L’autre ritorna sulla chanson francaise d’autore, mentre Last Temptation Rescue ci fa riemergere dalla lunga apnea offrendoci la meraviglia dei suoni della natura al risveglio.
Un disco intenso quello degli Oniric, che potrebbe piacere anche ai non interessati al genere, come il sottoscritto. La cosa che risalta di più è infatti la perfezione degli arrangiamenti e la passione musicale che esonda dal disco contagiando immediatamente l’ascoltatore. Una passione spropositata, dilagante, onirica. Proprio come quella con cui Jean si tuffa nel fiume per cercare la sua Juliette. Se non è amore, poco ci manca. Ma, ci scommetiamo, L’Atalante degli Oniric, deve ancora essere completato.
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