Per il 10° album in 20 anni di carriera i Low hanno scelto la modalità invisibile. Un titolo del genere ci dovrebbe suggerire una presenza, quanto mai effimera e sfuggente. Invece io ho sempre considerato i Low un gruppo ripiegato sul concetto di assenza, su ciò che manca, ciò che si è perso e che rende irrimediabilmente perduti. Può darsi che The Invisible Way voglia comunque significare altro, ma al suo interno il gruppo di Duluth dissemina comunque tracce di questa sua predisposizione alla perdita in maniera piuttosto esplicita. Da Holy Ghost, in cui la splendida voce di Mimi Parker sussura “some holy ghost, keep me hangin’on” su un sottofondo che non può che essere blues ed in cui ogni nota pesa come un macigno; ad Amethist in cui è invece Sparahawk nelle battute finali a dire qualcosa a proposito di una “nobody’s stupid girl”. A prescindere da questi suggerimenti, comunque interessanti per inquadrare meglio la produzione dei Low, The Invisible Way non si discosta dalla tradizione musicale del gruppo, che sviluppa al meglio la tradizionale definizione di slowcore (mai genere musicale fu identificato meglio da una singola parola), concentrando il tutto in 11 brani di poesia magistrale. Lo slow iniziale di Plastic Cup e di Amethist scivola via con immensa dolcezza, mentre So Blue, un pezzo che scommettiamo avrebbero voluto fare gli Arcade Fire, sembra riportarci al core, che altro non è che lo struggimento interiore, il canto di dolore della vita (o, in questo caso, della morte). Tenace ma irrimediabilmente perso. La maggior parte dei pezzi sono acustici, c’è poca elettricità e tantissimo piano per dare armonia ed ariosità al tutto. Le note di Waiting sembrano languide, sul punto di sciogliersi, una breve parentesi prima di Clerence White, dove sembra di ascoltare i Radiohead senza le astrazioni cervellotiche di Yorke, ma sostenuti da una solida impalcatura classicista. L’altra sognante parentesi di Four score apre la strada a Death of me, dove sopraggiunge un po’ di ritmo per evitare una crisi di anemia. Il sapore folk (Mother) che pervade buona parte dell’album è senz’altro merito di Jeff Tweedy dei Wilco, che ha prodotto e registrato il disco, ma che poco ha potuto fare in On My Own dove il pop gioioso e colorato iniziale viene stravolto da un’ondata di riverberi che culmina nella trascendenza. Il titolo del pezzo potrebbe confermare le nostre indicazioni iniziali sul valore dell’assenza per i Low. Noi ve lo confermeremo a maggio quando andremo a vederli a Bologna per la loro unica data italiana. Ovviamente accompagnati.
Label: Sub Pop
Anno: 2013
Tracklist
1. Plastic Cup
2. Amethist
3. So Blue
4. Holy Ghost
5. Waiting
6. Clarence White
7. Four Score
8. Just Make It Stop
9. Mother
10. On My Own
11. To Our Knees
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