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apr 08

Untied States – Instant Everything, Constant Nothing

Instant Everything, Constant Nothing

Avete mai provato a spingervi oltre i vostri limiti? A provare quella sensazione di onnipotenza nel superare tutti gli ostacoli ed i paletti che gli altri attorno a voi si sono posti e vi hanno posto attorno? La prima sensazione che vi coglie è sicuramente lo spaesamento, la perdita delle coordinate che vi avevano avvolto e coccolato fino a quel momento. Di fronte a questa situazione c’è chi si smarrisce e chi sente dentro di sé una immediata sensazione di libertà assoluta, di rottura degli schemi. Un dilemma che ci coglie anche di fronte al terzo album degli Untied States.
La band composta da Colin Arnstein, Skip Engelbrecht, Darren Tablan e Satchell Mallon aveva già suscitato un certo interesse dopo la pubblicazione di Ineffable By Design e dell’ottimo Reatil Detail, più una serie di Ep come Bird of the Blood Feather. Gli Stati Uniti sono la terra ideale per provarci, ed Atlanta in particolare sta vivendo un momento di fama particolare grazie ai giovinastri che si esercitano da queste parti. Ma se voleste cercare una etichetta da appicicare agli Untied States siete sulla highway sbagliata. Molto difficile trovare un minimo comune denominatore per queste 11 tracce: le si può solo seguire da lontano e sentire l’odore di una lungo ed olezzosa scia no wave.
La scia prende forma con Gorilla The Bull, e sull’asfalto si intravedono le frenate dei riff di chitarra di Skip e della voce di Colin. La band di Atlanta si dimostra incredibilmente attenta alla struttura delle proprie tracce, che nonostante i continui e repentini cambi di ritmo, mantengono una propria omogeneità nella loro interezza. La sessione ritmica di Mallon e la dissonanza cospicua di Not Fences, Mere Masks ci proietta nel vortice dei Liars, ma mentre questi ultimi sembrano aver perso dei colpi ultimamente gli Untied States avanzano con incedere sicuro tra le fitte nebbie del rumore allucinato. Attenzione al vorticoso finale: come direbbe Douglas Mortimer c’è aria di prog in quella foto. Ed infatti la melodia torna sull’altare di Unsilvered Mirrors, mentre Grey Tangerines aggiunge circa un cucchiaio di synth e mescola abbondantemente con la supervisione di Tablan che ha co-prodoto il disco in maniera eccellente. These Dead Birds vede gli Untied States sbocciare nella lor completa, strana e stravagante maturità artistica: si parte piano con una lirica pop accompagnata da tastiere quasi da nord Europa, poi l’eletricità infiamma il pezzo e lo riporta su canoni meno ortodossi. La dissacrante Take Time for Alway vince la palma d’oro del miglior pezzo, nel suo contrasto quasi cabarettiristico spazzato via dalla ossessività di Colin. Bye Bye bi-polar parte come un pezzo dei Blonde Redhead ed unisce al gran miscuglio dell’album anche ricordi post rock di altre epoche. Wrestling with entropy in the Rehabbed Factory aggiunge un tocco visionario al sound degli Untied States, sullo sfondo dell’entropia provocata dalla tastiera usata quasi in modo improprio e petulante. Delusions are grander passa quasi inosservata mentre Holding Up the Walls e Kowtown Great Equalizer contribuiscono a creare lo spaesamento totale da fine-di-disco (come direbbe il caro Strangelove).
Gli Untied States sembrano raccogliere tutto quello che incontrano per strada ed unirlo con lo scotch nello studio di registrazione. Poi lo smembrano con il taglierino in un gioco senza fine che spinge al di là le coordinate del rock sperimentale odierno. Più che ascoltare un disco, sembra quasi di fare un incontro di wrestling commentato da Dan Peterson in confusione mentale. Il rischio è infatti quello di smarrire completamente la bussola (perdere la rotta come i cefali direbbero a Crotone). Agli Untied States non piacciono le cose scontate. Ed a noi nemmeno. Per questo li apprezziamo: e voi ve la sentite di varcare la sogliola?

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