a cura di Christian Panzano
Due artisti, due mondi, due corridori di spessore. Da una parte un chitarrista e autore riconosciuto più all’estero che in Italia, dall’altra uno degli attori italiani più impegnati nella commedia quanto nel cinema realista. Sono Gianmaria Testa e Giuseppe Battiston, musicando e recitando Italy- sacro all’Italia raminga di Giovanni Pascoli. L’occasione di vederli all’Elfo Puccini è ghiotta anche se siamo all’ultimo giorno di scena e il grosso degli spettatori se li è goduti già nei giorni precedenti. Nondimeno la sala Shakespeare è per metà piena, segno di un’attrattiva che va evidentemente oltre la pura curiosità. Erano anni che aspettavo di vedere l’ex capostazione di Cuneo in azione, ma mai come ora l’interesse, che negli anni è cresciuto, si presenta rinvigorito. Per quanto riguarda il fedele sodale Battiston non ho potuto che ammirare film su film, da Pane e tulipani ad Agata e la tempesta, da Si può fare a Giorni e nuvole (lunga la sua collaborazione con Silvio Soldini) passando per Bar sport. Italy viene studiato tutto con le armi a disposizione: da una parte la profondità sonora, l’arguzia e la poetica che contraddistingue Testa, dall’altra l’ironia, la versatilità e il candore mostrato da Battiston. Alla sua seconda prova teatrale, dopo il successo di 18 mila giorni-Il pitone di due anni fa, il duo dimostra abilità nel narrare la storia di una famiglia, di una paese – o di più paesi –, la storia delle migrazioni italiane. L’attore bene fa ad anteporre un cappello allo spettacolo vero e proprio, introducendo gli spettatori al tema: gli italiani additati come gringos, i migranti senza paglia e senza fieno che stregati dalla ‘Merica partivano già alla fine dell’ottocento a milioni (14 in base alle ricerche più attendibili) per cercare un sogno, raccontato con altrettante milioni di lettere inviate a parenti lontani. Pascoli dona il suo genio in modo unico – oltre lui solo De Amicis si addentrò sul tema – . Il canto primo inizia con la voce in tensione fin dall’attacco “A Caprona, una sera di febbraio, gente veniva, ed era già per l’erta, veniva su da Cincinnati, Ohio” L’immedesimazione è piena e rispecchia la fragilità e l’incertezza dei tempi narrati. Testa da par suo ricopre un ruolo considerevole sovrapponendo al testo i racconti di da questa parte del mare che di suo era già un album rivolto all’emigrazione, al senso di spaesamento, che porta al razzismo da un lato e all’integrazione sociale dall’altro “lo sapevamo anche noi/il colore dell’offesa/e un abitare magro e magro/che non diventa casa/e la nebbia di fiato alla vetrine/e il tiepido del pane/e l’onta del rifiuto”.
I collegamenti fra le parti testuali e la musica diventano tanti e si intrecciano rimandi e analogie, giochi di parole e note – è Battiston a regolare il ritmo, di tanto in tanto unendosi in coro – . Si conclude nel migliore dei modi, musicando X agosto di Pascoli. I decasillabi vibrano di luce propria sillabando il dolore e la tristezza del testo. La storia evocata – la morte del padre di Pascoli – è dolcemente cantata da entrambi i nostri protagonisti in azione, su un palco che ora sollecita più del solito per aver lasciato uno squarcio di orgoglio e dolore nel petto.
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