a cura di Christian Panzano
Non era una bella serata per vedersi un concerto, ma un unplugged di Richie Kotzen non me lo sarei perso per nulla al mondo. È vero, fa caldo in questi giorni a Milano e l’ambiente diventa ostile se ci si avvicina ad una strada percorsa da smaniose frequenze automobilistiche. D’altro canto bere anche di gran gusto, come si sa, non aiuta molto. Al rendez vous, in questa serata che non ne vuol sapere di rinfrescare i polsi, si arriverebbe con la 74 da P.ta Genova, ma è sabato e sui Navigli scatta la movida estiva, il surf paradossale su Porta ticinese in quell’acqua verde che mi rende in mal arnese peggio dell’effetto dato da un moskow mule mescolato con troppa vodka. Mi distraggo, guardo i buffet stracolmi nei locali, cedo in occhiate furtive sulle ultime uscite in una libreria che si pronuncia ad angolo e ci provo gusto per questo fiorire della vita soleggiata, ma solo per un po’ . Prendo al volo l’autobus che scorre via veloce come un razzo in una girandola di caldane pressurizzate, portandomi integro a destinazione. Percorro i 100 metri che da via Voltri, passando per la vecchia Barona, mi conducono al Barrio’s cafè di via Boffalora. Un anfratto piccino che si estende in lungo, dal bancone delle birre al palchetto con gli strumenti già checkati su. Metto meglio a fuoco la vista e sgamo Richie che divora un panino proprio a 5 metri dalla mio naso. Ne approfitto per scambiare due chiacchiere – ho detto due e non di più, visto il magro inglese che mi porto dietro – e farmi una foto insieme. Gesti di rito, ma sempre bei gesti sono. Lo vedo smagrito, un po’ invecchiato, sotto quella scorza biancastra e quegli occhi chiari che parlerebbero di eterna giovinezza, invero la chioma, giustappunto accorciata, mostra neanche senza troppo pudore un orgoglioso brizzolato a ombreggiare su quei tatuaggi da rocker vissuto. È schivo Richie, non si lascia prendere dalla foga altrui e sfugge, per noia o per routine, alle prestanze di un qualsivoglia fan pieno d’ansie. Tempo 5 minuti di orologio e preferisce volare via per ritornare trionfale un’oretta dopo con in testa un cappello a tesa corta e una chitarra attaccata al petto. Le due ore di concerto sono state leggere e sentite, non è volata una mosca quando l’ex dei Mr. Big ha attaccato sui classici, cantati da tutti a squarcia gola – Faith, I would, Doin’ what the devil says to do, Dust – senza colpo ferire, con abilità e quella sua perfezione ormai riconosciuta in tutto il mondo. Il Barrio si riempie, devo dire anche grazie ai fan dei Sixty miles ahead, gruppo spalla composto da quattro simpatici ragazzi milanesi impegnati nel tour promozionale del loro disco Millions of burning flames. Ma dove sono i fan di Richie? Qualche ticchettio prima della mezzanotte e il bar è stracolmo fuori e dentro le sue quattro mura. Il vociare forsennato, la fregola delle ragazzine come quella dei capelloni con addosso le maglie nere degli Uriah Heep strega l’ego di Kotzen che finalmente smolla un attimo le corde della biga, facendo scivolare la mano sinistra su accordi antifonali, pigiando per note blu, legati da paura, glissando irriverenti e smaliziati, graffiando per scale multicolori. Un acustico che non lascia spazio a nientr’altro se non ad una tecnica carismatica, poliedrica e sinergica fino quasi al punto di rottura. Le esecuzioni dei brani, come sempre rivisti in chiave soul nella voce, sono intervallati da presentazioni, aneddoti, novità che rendono godibile la serata anche se il caldo soffoca gli astanti impegnati a tracannare birra e cocktail. Sarebbe stato fantastico se si fosse allestito il tutto prorpio fuori dal locale, nella piazzetta della struttura polivalente anche perchè la temperatura, quei pochi filamenti di vento e la natura nel suo insieme avrebbero fatto il resto. Ma non si può pretendere tutto dalla vita. Ho ammirato le gesta di un grande chitarrista, che a dispetto della vulgata mainstream, si è dimostrato un artista rispettoso della sua storia, del leggendario rock da lui profuso in tutti questi anni, del calore dei sogni suoi e nostri e dell’irresistibile fascino del suono di una chitarra acustica. Un Richie Kotzen al servizio del blues.
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