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ago 15

Sara Bareilles – The Blessed Unrest

a cura di Marco Valchera

La sua Love Song è stato, senza ombra di dubbio, uno dei tormentoni degli ultimi anni, ma la giovane Sara Bareilles ha dimostrato di riuscire a sopravvivere al suo quarto d’ora di fama: Little Voice (2007) e Kaleidoscope Heart (2010), nonostante qualche difetto qua e là, soprattutto di mestiere, sono stati due buoni album di piano pop, dove la nostra ha rivelato efficaci doti di interprete e una scrittura, musicale e non, neppure troppo scontata, pur essendo pienamente mainstream. Sbocciata nell’ambiente dell’Hotel Café, insieme a molte altre colleghe di minor successo, il suo nome e quello di Ingrid Michaelson (con cui ha collaborato nel brano natalizio Winter Song) hanno acquisito sempre più notorietà, anche nelle classifiche. Questo sua terza fatica su major, The Blessed Unrest, nasce da un periodo difficile e di crescita dell’artista e segue un confuso ep, Once Upon Another Time (2012), migliorandone alcuni aspetti, ma non riuscendo a convincere. Nella scaletta si affronta un continuo sali e scendi tra brani riusciti e altri, che proprio non convincono, forse anche a causa di una “sperimentazione” elettronica, che tende a soffocarne l’estro pianistico. La conferma di ciò è evidente nella seconda metà dell’album, che vede la Bareilles allontanarsi dal suo strumento, con risultati discutibili, seppure maggiormente appetibili per un pubblico più ampio. Si ha l’impressione che la californiana desiderasse un improvviso cambio di rotta rispetto alle atmosfere del predecessore: ma la migliore Sara è quella che guarda alle origini, che si siede al pianoforte, e non quella tutta sintetizzatori e intrecci vocali appannati. The Blessed Unrest ci regala qualche contentino pianistico, nella speranza che il futuro ci riservi qualcosa di migliore, più intimo e meno sovrarrangiato.
L’apertura di Brave, nato dalla necessità di esortare un amico gay al coming out, è un vero e proprio pop anthem, nello stile di Stronger di Kelly Clarkson: migliore musicalmente di quest’ultima, è comunque inferiore all’orecchiabilità pop dei  vecchi singoli di debutto, la già citata Love Song o King Of Anything. Scritta in collaborazione con Jack Antonoff dei fun. è un brano pop pulito e sorretto da batterie hip hop: niente di eclatante, così come la successiva Chasing The Sun, una piano song alla The Fray, che ricalca lo stile dell’esordio, e che si focalizza sul raggiungimento dei propri obiettivi. Poi The Blessed Unrest prende un’ottima piega: Hercules inizia con un pianoforte alla Fiona Apple e si arricchisce di archi; Manhattan, ode alla Grande Mela, è una profonda e splendida ballata, arricchita di fiati, dai sapori jazz alla Norah Jones; Satellite Call, con i suoi echi e riverberi vocali, riporta in vita la Sarah McLachlan di Fumbling Towards Ecstasy (1994). Il problema è che tutto ciò che segue, ad eccezione di un paio di rari momenti, l’elettronica di Cassiopeia e la ballad Islands, è banale e privo di appeal. Il finto soul alla Amy Winehouse di Little Black Dress, con tanto di fiati, è un mezzo fiasco, così come la scialba ballata da FM 1000 Times, su cui aleggia Jewel o il riempitivo finale di December. Ancor peggio va con I Choose You, tutta hand clapping e archi pizzicati, e Eden, vera caduta di stile, sommersa in sintetizzatori 80’s.

Label: Epic Records
Anno: 2013
Tracklist

01 – Brave
02 – Chasing The Sun
03 – Hercules
04 – Manhattan
05 – Satellite Call
06 – Little Black Dress
07 – Cassiopeia
08 – 1000 Times
09 – I Choose You
10 – Eden
11 – Islands
12 – December

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