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set 12

Melassa

Glenn Gould

C’è una arresto nel nulla. Un cresta che non vuole tacere, ma riaffiora dal silenzio di questa valle. È notte quasi fonda, caduta da un lastrico di stelle. Vorrei essere lo straniero che non sono. Avevo lasciato da qualche parte un filo senza misure… ah si; c’era un francese, un inglese e un italiano. Ma non è la solita barzelletta, dove se non interviene un cowboy o un russo, si deve pregare per scongiurare una guerra, l’ennesima buttata lì tanto per cercare di anticipare la crescita asiatica, più che mettere mano al rubinetto dei desideri. Jinge da paesino appenninico, dove il califfo è ancora vivo e vegeto sulle pareti. Un’arsura che di mattina m’asciuga in gola e mi rivolta in gravi condizioni. Rischio assiderazione prevedibile non guaribile, preferisco non gesticolare, meglio digiunare, forse è ipocondria. Al bar in piazza il nonno dietro al bancone versa del vino rosato a due suoi coetanei. Uno ha uno strano modo di parlare, quasi biascica, si trascina quella lingua pietrificata sul manto palatale e tutte le gutturali gli nascono sputate, col verso della tigre. Il suo interlocutore ha uno sguardo di montagna, da stambecco bruno, il sorriso gli si piega da un lato solo, quasi a precipitare in basso, due orecchie come scolpite col black and decker, non mi sconfinfera neanche per l’anticamera del cervello. Lo guardo con aria rimbrottata, lui mi trapassa lo zigomo con quegli occhiacci di pietrina nera. Ne vuole sapere più del sottoscritto e un po’ mi sta sul cazzo tutto ciò, poi qualcosa prende forma, ma si scuce in un istante. Fuori, nell’orticello di brecciolino, qualcuno ha posteggiato un maggiolino special bug del’73, nero. Mi accorgo di crepare dal caldo e una goccia di sudore – la sento formicolare – fa il giro lungo la pista della mia schiena. Dalla macchina, lasciata a motore acceso che singhiozza, sibila la voce di Murdoch, il cantante dei Belle & Sebastian. La identifico come fosse mia, una melodia facile e fascinosa. Ma il jingle orribile che proviene dalla radio accesa copre tutto, mio dio. Ordino il primo caffè con fare incazzato. Sfoglio il giornale e mi do un’occhiata allo specchio dietro il lastrone, ho una faccia raggrinzita, quasi spiegazzata e non deve essere un bel vedere da di fuori. La terza pagina, oltre a descrivere questo paese calamitato, ha una punta sporca di crema pasticciera, probabilmente deve trattarsi di una svista, una goccia di sentimento in più lasciata da qualche cliente. Mi trapassa una fragranza di donna, direi bionda, su un metro e 65 e dal bell’aspetto che si precipita ad aprire lo sportello del maggiolino, infila la prima, sgasa e parte di corsa seguendo la curva che riporta sul pendio. Poteva essere ambra grigia quell’effluvio che ancora sento di fianco al petto, ma l’odore di cuoio e bergamotto di certe bestie sedute al tavolo di fianco al mio me l’hanno fatto dimenticare in fretta. Uno di questi omoni ha un fare assai mellifluo, muove le mani come fossero pale d’accattone e un altro seduto al suo fianco annuisce da allocco sottolineando ogni sillaba, ogni sicumera ammucchiata in anni di mattoni e livella. Parlano di tufo, silicone, calcare, di rifare bagni e pavimenti, di verniciare e sverniciare, di smantellare e raschiare qui, di smaltare e rifare là e io penso alle pratiche dei miei clienti lasciate in ufficio, che non riesco più a risolvere da mesi. Mi sembra quasi di sentire i loro fegati di trementina, le loro vene arteriose, il respiro affannoso e obeso, la loro foga innervata sugli stinchi. Questa notte mi è passato il sonno, ha trafitto una casupola di brillantina e ci ha appiccicato sopra un avviso di mancato appuntamento. Ho pensato ha quella striscia di luce che non riesco più a districare, perché mi sfugge fra le dita imbevute di nicotina, poi ho avuto voglia di mare. Fumo l’ultima cicca lasciata nel pacchetto, era lì solo per scongiurare l’assenza di un chiosco nelle vicinanze. Tutti mi dicono di passare al tabacco sfuso, ma non ho mai imparato a farmele. Da qualche anno ho un cerchio alla testa e credo proprio che smetterò con questa droga. Mi consolo con un po’ di musica: non disdegno lounge o ambientazioni sulfuree, buddha chill e galassie pressurizzate. Me ne fotto se il popolino vuole che si chiami passepartout per menti ambulanti e cessi ridenti, d’altronde quando tiravo giù le sottane, il mio flipper era Cassius che oggi i giovani venerano e all’epoca, in quest’Italia senza curve, smerdavano. Poi nell’anello degli spiriti mi sento calare la vista e sulla lista mi si precipita l’anima di Glenn Gould che dissimulava l’innaturalità delle parti pubbliche, dei pedali per farsi sentire in galleria e dei concerti dove il pubblico si sentiva musico e sul palco rimanevano spaventapasseri in polivinilcloruro. Lui si che spariva veramente. Ricordo la prima volta che ascoltai le “sue” variazioni, liquide e fugate, che ora associo a questa permutazione tra nulla e addii in cui mi sento inghiottito, rimproverato, insonorizzato come in uno smorzamento pre digitale. Sono di ritorno, verso Milano che, da più parti smunta, tanto più bella non ce n’è in giro. Una Milano scavata di fine agosto che si veste di pergamena, perchè prendersi una granita a Cordusio, in questi rari momenti, sembra come gustarsi un gelato ai quattro canti, nel bel mezzo delle doppiezze wendersiane. C’è odore di pioggia sottile. Casa e un crespolo di desideri mancanti, una nebulosa di voglie che non lascerò mai andare giù per strada a giocare. Mi sembra di ritornare bambino a volte. Sotto quegli stecchi di ulivi che dribblavo col pallone c’era molta più fantasia di un Xbox, molta più fisica solerte. Ho lasciato una campagna che costeggiava conifere e patchouli e ora la pioggia scende giù rinfrescando l’aria di melassa.

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