Il Castello è un buon posto dove ascoltare musica. Le sue linee non sono gotiche, ma rinascimentali come suggerirci che dobbiamo resuscitare le nostre anime prima che sia troppo tardi. Le nostre, perché quella di Crotone ormai ce la siamo giocata. La volta precedente era toccato ai Vessel, ora tocca ai Moodweavers provare ad aprire un’altra breccia fra i possenti muri della magione dove abbiamo rinchiuso per sempre le nostre speranze. I tessitori di umori ci danno appuntamento in una cupola sotterranea che fa molto chiesa sconsacrata: all’interno si svolge una manifestazione dell’E.N.P.A. con mostre fotografiche e pittoriche. La prima nota che salta all’occhio è un tappeto rosso rubino adagiato per terra ed una immensa volta che disturberà l’acustica. I primi a farne le spese sono i Taranta Terapy, sestetto cosentino di impatto ska. Quando impariamo a levare le sedie durante i concerti qui è sempre tardi.
I Moodweavers arrivano subito dopo, e dopo aver settato le armature iniziano a soffiare atmosfere desertiche che fanno ottimo pendant con l’intonaco color sabbia del Carlo V. Poi la botta improvvisa e sembra quasi che ci cada la volta addosso. Ci si fa l’abitudine ascoltando il loro Into The Mood, primo demo autoprodotto, registrato e mixato allo Studio Scandellara di Bologna lo scorso settembre. Gianluca Martino (voce, ma l’acustica del luogo ci nega il suo spettro sonoro recuperato fortunatamente nel cd), Antonio Bagalà e Tommaso Squillace (chitarra), Simone Basile (basso) e Dario Basile (batteria, ma perché li mettiamo sempre all’ultimo i batteristi?) sembrano posseduti dallo spirito stoner di figure mitologiche della West Coast americana, a partire da Joshua Homme, appena resuscitato nei Them Crooked Vultures insieme ad altri reduci di spicco di epoche passate; per finire con Nick Oliveri e, perché no, il sempre sfumacchiante Mark Lanegan. L’esordio è affidato ad Alkarinque, in pieno stile QOTSA, con arresti repentini ed una batteria pestata a sangue più che suonata. Assolo fenomenale e linee vocali che ricalcano le orme di John Garcia. You are the moodmaker invece fa solo intravedere un accenno blues prima di coprirlo di riffoni granitici di varia natura. Sussurri dark per Spiral, che non è il Downward di reznoriana memoria ma poco ci manca. White Noise infine è un power blues che ti si spara dritto dritto nelle membrane acustiche, facendoti rimpiangere in tempi in cui i 22-20s troneggiavano indisturbati a cavallo del decennio appena trascorso.
Forse se si vuole trovare un difetto è la lunghezza eccessiva dei pezzi in tutte le tracce, nessuno al di sotto dei 4 minuti, cosa che rende più orchestrale ed enfatica la loro esibizione, facendone comunque apprezzare le indubbie capacità tecniche ed i continui cambi di registro. Dettagli su cui si può lavorare, sperando che anche loro non spariscano come altri cresciuti troppo in fretta da queste parti. E non parlo solo di band: Fabio, non mollare.
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