«

»

apr 08

Ok Go – Out of the blue colour of the sky

E’un basso rigonfio di vibrazioni quello che apre Out Of the Blue Colour of The Sky, nuovo disco per degli Ok Go. Ci avevano strabiliato con il loro esordio fulminante del 2002, e ci avevano convinto con il loro secondo lavoro, Oh No, su cui li avevamo visti all’opera come supporting band dei Flaming Lips qualche annetto fa a Roma. Rock brioso e divertente, con coretti contagiosi e la giusta strizzatina d’occhio al commerciale, specie nei clip a rotazione su MTV (ma vogliamo parlare anche della soundtrack di New Moon?). Per il loro terzo lavoro l’andazzo sembra essere identico, con l’iniziale WTF che ricalca le orme dei singoli precedenti, così come This Too Shall Pass. Ma c’è qualcosa di strano che si annusa nell’aria. Una certa malinconia sembra serpeggiare nelle atmosfere evocate. All Is Not Lost ci schiaffa in faccia la realtà: Damian Kulash (voce e chitarra), Tim Nordwind (basso e voce), Dan Konopka (batteria) ed Andy Ross (tastiere), sembrano affetti da una maggiore predisposizione pop ed un senso lirico che può essere forse paragonato agli ultimi Muse (specialmente in episodi altamente effettati come Needing/Getting). Poco a che vedere con i balletti spensierati di A Million Ways ed Here It Goes Again. Anzi, proprio in Needing/Getting la parte finale è troppo seriosa per i canoni a cui ci avevano abituato i quattro di Chicago. Anzi, di Los Angeles, perché gli Ok Go hanno lasciato l’Illinois per l’assolata California, forse per stare più vicini agli uffici della Capitol Records che li produce. Il risultato però è sconfortante ed il cambio di atmosfera pare non avergli giovato: da un trasferimento del genere ci si sarebbe aspettato un maggior impatto sonoro ed emotivo, ed invece otteniamo la deludentissima Skyscrapers, blues da dormiveglia tirato un  po’ troppo per le lunghe, dove Kulash strilla come un maiale che sta per essere sgozzato.
Un po’ meglio va con White Knuckles, disco-pop d’ambientazione eighties dove le tastiere salgono e scendono come una marea primordiale, ed un azzeccatissimo assolo, scivoloso come una scala appena tirata a lucido. Ma agli Ok Go gli gira un po’ a male ultimamente, e quindi eccoci ad I Want you So Bad I Can’t Breathe: tenuta su solo da arresti e ripartenze a iosa. End Love invece parte come un pezzo dei Ladytron, ed è sicuramente l’episodio più riuscito, con inframezzi elettronici ed un ritornello così eighties che non si può non ballarlo (Sky is falling). Ma sono solo sprazzi di bel gioco: Before The Earth Was Round è completamente inascoltabile, mentre Last Leaf ci fa intravedereun’acustico Kulash in versione country. Ma gli Ok Go si sentono ispirati anche dall’ultimo Wayne Coyne, ed ecco qui Back from Kathmandu. Per i romantici While You Were Asleep per spezzare i cuori con la giusta dolcezza ed il solito disincanto. Depressione profonda ed un continuo girovagare per cercare l’uscita. Fortunatamente la porta sta ad In The Glass e mentre si gira la maniglia ci si volta indietro per guardare un triste compagno assorto nei suoi tristi pensieri (my God what have I done?) con lo sguardo ormai perso.
In conclusione un disco marginale, un po’ troppo svogliato e melanconico. Alcuni pezzi di assoluto valore non fanno che farci rimpiangere ciò che gli Ok Go hanno fatto e ciò che avrebbero potuto fare se forse ne avessero avuto la possibilità o più coraggio. Ma vederli così a mezza via, senza sapere che direzione prendere è veramente penoso. Così come l’album. E con questi pezzi non basterà certo un altro miracoloso videoclip od un simpatico balletto idiota a risollevarne le sorti.

Lascia un Commento

Il tuo indirizzo mail non sarà pubblicato!

Puoi usare i seguenti tag HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>