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nov 19

Chelsea Wolfe – Pain Is Beauty

Al quarto album, Chelsea Wolfe decide di smorzare il lato più oscuro e dark, che aveva contrassegnato le sue opere precedenti, già a partire dagli artwork (l’occhio senza pupille di Apokalypsis) e virare verso un collage di più ampio respiro, sempre nero, di brani, che nascono da diverse influenze. La Wolfe è non più soltanto l’artista californiana che interpretò una cover della band demoniaca e hard metal Burzum (Black Spell Of Destruction) e che ama vestire i panni di una strega musicale, ma un’interprete che, aperti nel frattempo i concerti di Swans e Sunn O))), mostra anche le proprie debolezze e arricchisce le proprie composizioni con nuovi strumenti. Pain Is Beauty è senza ombra di dubbio il miglior lavoro della Wolfe: disturbante, ma anche evocativo, emozionante, malinconico, è destinato ad un pubblico orfano di Zola Jesus o Susanne Sundfør. L’ambientazione notturna e cupa è l’elemento preponderante, ma i toni vengono smorzati, la produzione è affinata, le interpretazioni vissute e precise: non è forse un disco destinato ad avere grande successo dato il suo taglio soffocante e plumbeo, ma è un ascolto coinvolgente anche per chi non ami, come il sottoscritto, atmosfere particolarmente gotiche. Pain Is Beauty cresce con gli ascolti ma è un’ottima lezione di musica, caldamente consigliata.
I primi quattro brani in scaletta sono una sorpresa piacevolissima: la spettrale Feral Love, con tanto di echi della prima PJ Harvey, è un viaggio diabolico soffocante, sorretto da percussioni tribali: Chelsea incarna una sacerdotessa goth che fugge da un amore malato (Run from the one who comes to find you/Wait for the night that comes to hide/Your eyes black like an animal/Black like an animal). We Hit A Wall potrebbe essere stata composta da Anna Calvi: una marcia funerea su chitarre rock e una tensione continua in levare. House Of Metal dispiega elettronica romantica come se fosse la Sundfør con un’interpretazione alla Natasha Khan: splendida, così come la successiva The Warden, in cui melodie glaciali e elettroniche alla Muse degli esordi si uniscono ad un dettato etereo, quasi incomprensibile, alla Goldfrapp. Destruction Makes The World Burn Brighter è una rievocazione di melodie ani Sessanta (come la Kate Nash di My Best Friend Is You), con una spruzzata di Beck, mentre Sick è asfissiante e un po’ monotona, sebbene la sofferenza delle parole della Wolfe meriti di essere saggiata (I’m not the kind of sick that you can fix/Don’t you worry about me baby/I’ve got no enemies and I’ve got no time). Kings e Reins riportano Pain Is Beauty su vette altissime: la sarabanda rock cinematografica della prima rievoca Nick Cave, mentre nella seconda sembra di riascoltare My Brightest Diamond di Bring Me The Workhorse con toni lirici che si appoggiano su chitarre rock. La decadente Ancestors, The Ancient, con le sue invocazioni, potrebbe essere il seguito di Glass di Bat For Lashes ed è seguita dal folk malato e lontanto di They’ll Clap When You’re Gone, in pieno stile Marissa Nadler, parallelismo evidente anche nelle tematiche affrontate da entrambe le artiste. L’epica e struggente The Waves Have Come, con i suoi oltre otto minuti, è una toccante ballata al pianoforte e archi, che racconta della tragedia dello tsunami giapponese dal punto di vista di uno dei sopravvissuti (They took your smell, they took your shadow/And I’m searching through faces for someone familiar/I clawed and I clawed but I couldn’t find you there/You wouldn’t wake I couldn’t sleep for years). La chiusura è affidata a Lone, acustica e scheletrica e, di nuovo, è la Nadler a venire in mente, prima dell’avvento delle chitarre rock nel finale.

Label: Sargent House / Goodfellas
Anno: 2013

Tracklist

01.  Feral Love
02.  We Hit a Wall
03.  House of Metal
04.  The Warden
05.  Destruction Makes the World Burn Brighter
06.  Sick
07.  Kings
08.  Reins
09.  Ancestors, the Ancients
10.  They’ll Clap When You’re Gone
11.  The Waves Have Come
12.  Lone

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