Crudele, spietato, violento, ironico, grottesco.
Da fantomatica copia – carbone un po’ parodistica degli ormai opachi e sbiaditi Manson, Zombie e compagnia guasta (persi in chissà quale oscuro vortice di ostentato e fallimentare autocompiacimento) ad artista maiuscolo, unico, orgogliosamente legato ad una propria orrorifica identità, alla propria “zombesca” personalità costruita dal nulla della Carolina settentrionale miscelando, nota dopo nota, disfatta dopo disfatta, abbandono dopo abbandono (Piggy D. vi dice nulla ?), sangue, sudore e tragic commedy made in Creepshow.
Wednesday 13 è tornato e lo ha fatto con un lavoro che si prospetta come la miglior registrazione della sua sterminata ed imparagonabile carriera musicale (quattordici splendidi album in quattordici lunghissimi anni), un lavoro che ha ben poco da spartire con la spensieratezza post alcolico – adolescenziale del precedente Fang Bang ! o con l’ariosità scherzosa, seppur macabra, degli esordi di Transylvania 90210.
Oscuro e pesante, Wed è tornato con un album intimistico e privato, una specie di porta aperta sulla sua personalissima lotta alla depressione (malattia di cui soffre ormai da tempo), senza i luoghi comuni del caso e, soprattutto, senza abbandonare quei temi di morte e viscere squartate che lo hanno attualmente reso l’incontrastato principe dello shock rock.
Scream Baby Scream si presenta fin da subito come un’opener perfetta : energica, distorta, vagamente manson – iana nel suo urlante incedere industriale, molto più vicina alla passata avventura coi Murderdolls, condivisi con l’amico Joey Jordison, che ai ritmi punk’n’roll degli, ahimé, defunti Frankenstein Drag Queen From Planet 13.
La presenza di Andrew Akelel (Nine Inch Nails, Foo Fighters) in produzione si fa sentire, eccome, e per averne una dimostrazione pratica basta metter su composizioni graffianti e ben congeniate come Not Another Teenage Anthem o l’adrenalinica From Here To The Hearse, due brani che si candidano a pieni voti come future colonne portanti dei prossimi live show del nostro Wed.
Ottime chitarre, melodie accattivanti ed atmosfera sporca e truculenta quanto basta.
Ma è nella title – track, Skeletons, nella successiva ballad My Demise e nella conclusiva Dead Carolina che l’oscurità, l’orrore vero, di Joseph Poole (questo il nome dell’artista) si sveste dei suoi abiti di scena, si pulisce il viso da ogni traccia di trucco ed artificio residuo e si fa veicolo introspettivo, dramma, storia sofferta ed evoluzione stilistica necessaria per evitare di naufragare nel disastro della ripetizione.
Lo si avverte nell’interpretazione vocale di Weddie, lo si scorge nelle inquietanti armonie della sei corde, nella ferocia che scava a fondo senza risparmiarsi nulla, nella brutale consapevolezza che non basta nascondere segreti nell’armadio per vederli andar via.
Sotto tutti i punti di vista, Skeletons è un album che si pone come la perfetta maturazione in contenuti e forma di quanto il “non morto” statunitense è stato capace di esprimere fin ad ora con i suoi precedenti lavori.
Si è perso in orecchiabilità ed immediatezza, questo è certo : la matrice catchy e radiofonica di canzoni sfrontate come I Walked With A Zombie o American Werewolves In London è letteralmente scomparsa, ma si è guadagnato in impatto, qualità, spessore, fattura.
E questo non è affatto poco.
Anzi, è la carta che trasforma un buon disco in un piccolo capolavoro.
Come questo.
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