Avremmo potuto iniziare questa recensione con qualche frase ad effetto tipo “Se questo disco fosse stato prodotto in Inghilterra…”, oppure così “Se solo i Verily So fossero nati negli USA…”. Ma non ci va di giocare a questo gioco trito e ritrito. Per cui ve ne proponiamo un altro. Non vi diciamo né chi sono, né da dove vengono e vi invitiamo solo ad ascoltare la loro musica. Che poi è quello che si dovrebbe sempre fare. Lasciare spazio alle note, soavi, delicate, ricercate, che ispirano immaginazione e libertà di pensiero e movimento. I loro album d’esordio è quello di un gruppo già maturo, pronto per calcare palchi importanti e per affrontare la ribalta internazionale con la sicurezza di chi sa quello che fa. Che poi è suonare, nel migliore modo possibile. Disegnando in soli 33 minuti arcobaleni folk di incommensurabile bellezza e drammatica epicità, grazie alla voce soave di Marialaura Specchia, anche alla batteria, che insieme a Simone Stefanini (chitarra) e Luca Dalpiaz (basso) ha dato vita al progetto. Ecco, ci siamo contraddetti e vi abbiamo detto chi sono. E vi diciamo anche che vengono dalla Toscana, terra di campagne e buon vino, nota ai più per le ville di importanti musicisti e per i viaggi estivi di importanti primi ministri inglesi. I Verily So invece vengono da bar, pub, chiese sconsacrate, prati e strade, vengono da band come i Dust Fuzz, i Desing, i Mugatu, i Maraiton ed i Medea. Per questo vengono su bene, spontanei e genuini, come l’Inconsapevole Records che li ha prodotti.
Provate solo ad ascoltare l’elettricità iniziale di Wax Mask, con un epica western che piacerebbe di certo al nostro amico Timbro. Oppure la wave al fulmicotone di Will you Marry Me e di Of Stars, a cui è veramente impossibile resistere. Un senso di calma e di tranquillità sembra pervadere il disco. E’come se i Verily So non debbano dimostrare niente a nessuno, sapendo bene che sarà l’ascoltatore ad avvicinarsi a loro. Irresistibili attrazioni. E così, senza strafare, ad Ordinary Minds sei già conquistato e ti sei arreso alla incommensurabile bellezza della spontaneità. Restando affascinato da All I see is gray, in cui inizia ad intravedere paesaggi più familiari, con gli Okkervil River che campeggiano a bordo fiume, e dalla successiva Ballad, che sembra fatta appositamente per omaggiare Mark Lanegan. Succhiando fino alla fine la drammaticità di Guns on Fire, veramente fenomenale nella parte conclusiva. Ed il blues finale di 15 years, suonato sulle rive di un fiume Cecina che assomiglia sempre più al Mississippi, mentre scorre placido e calmo, mormorando verso il mare ormai vicino “oh, I know it’s not to far, the day where I end and you start”.
ago 02
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