Come sempre un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, percorro in bici quei pochi chilometri che separano la mia attuale dimora al centro della città, e mentre percorro Corso Cavour sento già da lontano l’eco di suoni che mi sembrano provenire proprio dal mio punto di destinazione. Io da bravo sprovveduto, manco sapevo ci fosse una band spalla per questa data dei The National, che tornano dopo tre anni a Ferrara sempre per il solito motivo che alla fine gli piace il posto e si sono trovati bene; ma pensa un po’ te, non si trovano bene i ferraresi nella loro città, ma poi vai a scoprire che si trovano bene i niuiorchesi (o abitanti di New York che dir si voglia). Scopro infatti solo molte ore dopo che quelli che mi son perso a malincuore erano i San Fermin, che comunque han smesso di suonare alle 21:31, ora esatta in cui varco l’ingresso di Piazza Castello dopo aver parcheggiato poco lontano la bicicletta legandola alla saracinesca di un deposito di vernici. Mi suscita sempre un po’ di emozione scostare le tende che coprono lo sguardo dei tanti che rimarranno fuori ad ascoltarsi il concerto (pratica abbastanza nota in questo festival), ed il colpo d’occhio è sempre quello, ovvero che in fondo in fondo sia per i performer che per il pubblico, questo rimane un gran bel posto dove esibirsi e dove viversi un concerto (per il pubblico, peccato solo un po’ per il fondo ciottolato che favorisce la circolazione della pianta del piede ma alla lunga ti fa diventare i polpacci come quelli di Cannavaro). Se nelle tre precedenti date del festival il colpo d’occhio era inevitabilmente più ridotto e modesto per via delle proporzioni della venue, questa volta l’impatto è nettamente superiore perchè bene o male l’affluenza è notevole; mi aggiro quatto quatto e noto che già all’altezza della postazione del fonico si inizia ad infittire il variopinto crogiuolo di persone che compone il pubblico accorso, quindi per adesso mi fermo sulle retrovie. Trovo due amici del service, ci chiacchero un po’ e mi svelano gossip che ovviamente non posso scrivere, scommettono sul loro impianto luci contro quello del service che si sono portati dietro quelli della produzione, mi divincolo e vado a prendermi una birra che scopro essere un po’ annacquata. Il cambio palco coi San Firmin è lunghissimo, i tecnici analizzano e provano tutti gli strumenti degli headliner, e quando finiscono, partono almeno un paio di brani stranissimi che mi disorientano. Ma alle dieci e qualche minuto, ecco spegnersi le luci ed accendersi il grande ledwall che chiude il retro del palco, ecco che si vedono i componenti della band uscire dal loro camerino, e sulle note di Riders On The Storm salire sul palco… proprio un brano che mi fa scaramanticamente toccare le parti basse, non vorrei mai che venisse a piovere. L’incipit è forte, la band si posiziona sicura sul palco e inizia il suo show impreziosito da un bel spettacolo di luci ed una sapiente regia video che alterna immagini di sfondo a riprese video dei componenti della band sapientemente modificate, a volte quasi all’estremo. Sinceramente non sono un grande fan di questo gruppo e devo ammettere che la conoscenza che ho è piuttosto superficiale, ma già dai primi brani devo dire che li preferisco molto più ascoltare dal vivo che su disco: i brani sono eseguiti in maniera perfetta, i suoni si sovrappongono alla perfezione, la voce di Matt Berninger è sempre in primo piano, a volte quasi sovrastante sul resto, il fluire della scaletta è davvero ben equilibrato. Continuo a godermi lo spettacolo tra le ultime file della piazza, e apprezzo questa posizione perchè mi permette di scorgere sia le tante mani al cielo che si alzano nei momenti più significativi dei brani, sia i personaggi più “distaccati” che preferiscono starsene nelle retrovie per poter ballare più liberamente ed in maniera scatenata. Infatti ad un certo punto, memore dell’inizio del concerto, non capisco se sta iniziando a piovere o è la coppia di giovani sicuramente stranieri che con le loro danze tarantolate mi sta rovesciando la birra addosso… Fortunatamente (o sfortunatamente, dipende dai punti di vista) è la seconda. Tra una chiacchera con alcuni amici, una sigaretta e tanti applausi, scorre più di un’ora e quaranta di concerto, dove verso la fine scorgo un lieve accenno di stanchezza da parte del gruppo: alcuni momenti sono un po’ confusi, forse complice anche un suono che si è andato un po’ sporcando nel corso del live, alcune insicurezze sulla voce, ma non c’è nulla da biasimare dato che i ragazzi stanno suonando da un sacco di tempo senza pausa, nemmeno per interloquire un attimo col pubblico se non per dire che è sempre bello suonare in un posto come questo. La potenza sonora dei The National dal vivo è un evidente contrasto del loro comportamento sul palco durante l’esibizione, molto distaccato col pubblico, se non per alcune battute (ma veramente pochissime) e alcuni momenti durante i quali i gemelli Dessner si lasciano andare alzando gli strumenti al cielo. Dopo aver contato quasi una ventina di brani, ecco infatti la pausa e in attesa dell’encore il mio giudizio è “ok, non male”. Ma è al ritorno sul palco del gruppo che succede la svolta, un cambio di marcia punk che mi fa pensare “ma cosa sarà successo in questi 4 o 5 minuti? che avranno mai combinato nel loro camerino?”. Matt è trasformato, una verve schizofrenica ha preso possesso delle sue intenzioni, e anche se da lontano, lo vedo scomparire in mezzo al pubblico per andare a finire chissà dove: ne risulta un cantato sporco e sfuggente, con tanto di microfono fischiante che ad un certo punto sembra quasi staccarsi dal cavo. Davvero sorpreso infatti, vedo la band finire il brano ed il cantante che torna sul palco solo qualche minuto dopo, ma non è finita qua. Durante i quattro brani dell’encore, Matt è capace di prendere il cellulare di un fan delle prime file e continuare con una sua “personale regia” il video che stava girando, bere un sorso da una bottiglia probabilmente di birra e successivamente spruzzare il resto del contenuto sulle prime file per poi scaraventare il vuoto a terra sul palco. E per finire, togliersi tutta l’apparecchiatura di cuffie-spia, portare tutti i componenti della band davanti, ed inneggiare senza microfono la chicca finale Vanderlyne Crybaby Geeks con il solo ausilio di una chitarra acustica collegata all’impianto, e cantata a squarciagola senza microfono da lui, dal resto della band e da tutto il pubblico in visibilio. Succede qualcosa, ritorna un microfono, si sente qualcuno del pubblico cantare stonando, poi la voce di Matt confusa, poi un tonfo e dei fischi che rovinano un po’ l’atmosfera (che tra l’altro si è magicamente umidificata da una debole pioggia che però non rovina lo spettacolo e non spaventa nessuno) ma strappa un sorriso. Insomma, se fino a poco prima la mia opinione era piuttosto neutra, sul finale un “ma voi siete fuori” ci sta tutto. Viva la pazzia, via i The National.
Ringraziamento come sempre doveroso a Sara Tosi per il contributo fotografico.
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