Un, due, tre e via. Un inizio così semplice che non si ricorda da tempi immemorabili. Limpido come un cielo d’estate sempre blu, il nuovo album dei Beets è un gioiello di melodie scanzonate e sghembe che ti travolgono in un batter d’occhio. Dall’iniziale You don’t want kids to be dead alla finale Walking to my house, con dentro un mondo intero di pop rock molto low fi. E’l’attitudine quella che conta e Juan Waters e Jose Garcia sembrano saperlo bene: dopo l’esordio di Spit in the face of the people who don’t want to be cool (!) ed il secondo Stay Home ecco la prova della definitiva maturità per un gruppo di latino americani (ascoltare Preso Voy per delucidazioni ulteriori) cresciuti dalle parti del Queens. Ed approdati in breve tempo dalle parti della Hardly Art, con l’ennesimo batterista (Chie Mori) e l’immaginifico e colorato mondo di Matthew Volz creatore delle copertine e del mondo visionario del gruppo. Liberarsi dal veleno quotidiano (un omaggio diretto al conduttore radiofonico Howard Stern che con i Beets divide il luogo d’origine, vale a dire Jackson Heights) attraverso le 13 tracce di questo album significa abbandonarsi ai sogni della psichedelica anni ’60 di Eat No Dick, attraversare i territori brit pop di Let Clock Work, ed avere un debole per i Rolling Stones ed i voli pindarici di Mick Jagger. Rischiando di finire sulla sua nuvola ed essere aspramente rimproverati. Ma fa niente, non c’è modo di resistere ai Beets ed è per questo che ultimamente a New York non si fa altro che parlare di loro. Noi preferiamo ascoltare la loro musica, e poco importa che abbiano diviso il palco con i Pavement, Vivian Girls e Mountain Goats. Abbandonatevi ai dolci piaceri di I don’t know ed ai magnetici coretti di I think I might have built a horse. Salirete sempre più in alto, sentendovi finalmente liberi di essere voi stessi. Strizzando continuamente l’occhio al mondo che sta sotto di voi.
ott 14
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