Questa è la storia di un concerto strano, vissuto da diversi punti di vista, con opinioni differenti ed impressioni discordanti. E’ la penultima data di questa edizione del festival, una data grossa, dove il meteo sembra non essere favorevole ma che alla fine non ci punisce. Il mio arrivo è leggermente in anticipo sulla sempre precisa tabella di marcia del festival, gli Yak salgono sul palco di fronte ad un pubblico ancora piuttosto esiguo per la capacità di piazza Castello e soprattutto per l’hype di questa data. Il loro punk rock sembra quasi essere fuori luogo, complice il fatto che al merchandising le loro magliette sono segnalate dal cartello “t-shirt YAK – gruppo spalla”. Dò il beneficio del gruppo su tutta l’oretta scarsa, i tre dall’atteggiamento scanzonato ed irriverente sembrano piacere falsamente all’orda di giovani che stanno trepidamente aspettando i loro eroi, ma gli applausi scaturiscono ad ogni brano, nonostante chi mi circonda (ed anche io personalmente) esprima parere piuttosto negativo. Durante il lungo cambio palco incontro un amico che invece mi conferma con veemenza che secondo lui è proprio questa l’attitudine che deve avere un gruppo spalla, fregarsene di chi viene dopo, fare il loro sporco lavoro e fracassare timpani. Sono le 21:47, e la folla (composta da immancabili hipster che vestono t-shirt degli Arctic Monkeys ma nessuna di Miles Kane, vecchi mods e ragazzine che indossano shorts che lasciano poco spazio all’immaginazione pronte ad ululare di fronte ai loro idoli) va in visibilio all’uscita sul palco di Alex Turner e Miles Kane, un duo che avevamo già visto insieme sul palco con le loro formazioni più classiche nel 2013 (con un bel soldout). Ovviamente ciò che ci aspetta rispetto a tre anni fa è nettamente differente, e devo dire che nonostante i brani si facciano ascoltare più che volentieri, l’attitudine dei due frontman mi sembra assolutamente sopravvalutata: Alex è vestito come un tamarro elegante, occhiale figaccione, capello da Renegade, canotta da Renegade, pantalone e mocassino rigorosamente senza calze, si atteggia da piacione che sa di essere piacione, nonostante nulla si possa dire sulla voce; Miles è più inglese, solo elegante e non tamarro, più sfacciato, più dannato, meno consapevole del suo fascino ma non per questo in ombra rispetto all’amico. Una dietro l’altra inanellano pezzi del nuovo e del vecchio album, e la scaletta va via liscia, con in serbo due sorprese particolari: Totally Weird dei mitici The Fall, e soprattutto Moonage Daydream, omaggio al Duca Bianco. Ci guardiamo intorno e metà degli aficionados si osservano dubbiosi, c’è chi sfodera Shazam; scuoto la testa, ma è la gioventù, fatta di shorts che non lasciano spazio all’immaginazione ed abbinamenti di vestiario improbabili. C’è quasi un riflesso di chi sta sul palco sul pubblico, la sensazione che ho è che qualcosa sia sfuggito di mano, che ci sia sì bella musica, ma che la volontà sia quella di piacere per forza (ed un po’ me lo conferma qualche indiscrezione fotografica del backstage dove pare sembrasse di essere un po’ al Billionaire). Il tutto si esaurisce in circa un’ora e un quarto dopo un bis di quattro canzoni, ma tutto finisce tra gli applausi e le grida generali: un concerto concentrato, soprattutto rispetto agli altri visti in questa edizione del festival, un concerto strano dove la musica è indiscutibilmente bella, ma se vogliamo guardare a tutto ciò che ci gira attorno, rimane un po’ di amaro in bocca; rivaluto gli Yak a questo punto, che se ne fregano di apparire e di piacere, ma fanno ciò che gli piace. Bah, che serata strana…
grazie a Sara Tosi per le foto, a Federico Melchioli per l’aiuto nella recensione, all’informatore ignoto per il gossip da backstage.
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