Appena terminate le vacanze di Pasqua, la primavera esplode in tutta la sua fragranza e lucentezza, illuminando tutti gli angoli oscuri della città e del nostro animo. Rientro a Roma e mi dimentico di svuotare la cassetta della posta, quindi riscendo e tra bollette, una lettera dell’amministratore in cui c’è scritto che il tubo dell’acqua del mio appartamento perde (goccia) e pubblicità di pizzerie e kebabari trovo una busta grande. Dentro c’è un Ep di cinque tracce dal titolo Bancale, con un tizio nero sulla copertina su sfondo giallognolo che si apre il petto per farne uscire dei rami. Dietro, tra i titoli delle tracce, si nota subito Corteccia. Figo, penso. Per essere il mio primo promo ricevuto in formato fisico, anziché digitale, sarà sicuramente interessante. Mi colpisce anche la successione delle lettere iniziali delle tracce: C-C-C-C-D. Magari non significa nulla, magari si, ma oggi mi sento mistico.
Dentro tra le note, c’è scritto che questo Ep raccoglie il lavoro di due anni (dal 2006 al 2008) per descrivere principalmente la provincia bergamasca, come luogo geografico, sociale ed esistenziale. Bancale è stato registrato da Maurizio Bonfanti, che ha collaborato anche nel mixaggio di queste tracce che fondono blues, noise, folk, ambient e post rock. Incuriosito decido di metterlo subito nel lettore ed ascoltarlo. E subito passano la primavera, l’estate, l’autunno e mi ritrovo in pieno inverno. Gli angoli bui della città si moltiplicano ed il buco nero della mia anima aumenta a dismisura, divorando tutto ciò che incontra. Fin dalla prima traccia ci immergiamo nella società media e livellata dalla contemporaneità, dove i testi operano come bisturi per squarciare il velo dietro cui ci nascondiamo ogni giorno meccanicamente. Coproduci parte piano, con i piatti accarezzati da cui escono i fumi della nebbia bergamasca ed un giro di chitarra blueseggiante e marcio dentro. Tra santi che guardano dal cruscotto, suv che (co)producono solo inquinamento ambientale e psicologico, e cocaina per i figli, il ritmo lento del pezzo cozza quasi contro la velocità con cui affrontiamo la vita quotidianamente, inseguendo sogni (degli altri) per produrre (o meglio coprodurre) altri sogni, in un gioco che non finisce mai. E spesso si trasforma in incubo. E l’accelerazione finale, sembra quasi essere un atto di ribellione nei confronti della banalità della vita quotidiana. Gran bel pezzo.
La scelta del cantato italiano è azzeccatissima: d’altronde se una band di Berlino decide di cantare in tedesco, perché una band di Bergamo non può cantare in italiano (no ragazzi, non esageriamo: in bergamasco no, per via mie origini penso non ci capirei nulla)? Ed abbiamo nominato Berlino non a caso, perché se in molti hanno lanciato importanti paragoni con Tom Waits, Massimo Volume, Aidan Moffat e Bachi da Pietra, a me sembra di sentire echi degli Einsturzende Neubauten. Forse Perpetuum Mobile? Si nota dalle vibrazioni industriali che fanno tremare il sottosuolo acustico, creando crepe che lacerano l’animo ed esplodono in deflagrazioni finali.
Corteccia ripropone lo stesso schema, noise industrial di provincia in sottofondo. La voce e le parole sono di Luca Barachetti, che in questa traccia suona anche la Kalimba: la corteccia dalla carne ad afferrare un cielo senza forme viene quasi troncata da una motosega arrugginita che lascia un silenzio puro e scompagnato. Un silenzio ricercato disperatamente, un salto nel vuoto per allontanarsi dall’inutilità delle parole.
L’assalto dei tamburi di Fabrizio Colombi (degli Infarto, Scheisse!) in Crepa ci invita a prendere le nostre quattro ossa ed uscire, ed ogni attacco di chitarra di Alessandro Rossi è un colpo di machete sulla nostra carne: l’unica soluzione per fuggire è affidare la nostra anima a rosari di scariche per arrivare nella polvere. Più si va avanti nel disco, più l’ombra degli Einsturzende si fa evidente: Crinale sembra scritta da un Blixa Bargeld meno loquace del consueto (il pezzo è di 1.59) ma che concentra il tutto in pochi secondi: in open space give me my hate è l’unica concessione alla lingua di Albione, in un pezzo che è un concentrato di tutto, un crinale di fuoco, uno spacco di carne, una poetica roboante. Il tutto dedicato a Clint Eastwood. Che potrebbe ricomparire anche nella conclusiva Dolore, ambientata in uno scenario folk-western dove non c’è spazio per i sentimenti.
Ma qui magari ci starebbe meglio un dubbioso Django che portandosi dietro una cassa da morto, si chiede dove corre l’Adam che non prevede né controlla il bene, per poi decidere di seguire un fiero e rabbioso esistere di sopportazione e limite. Sullo sfondo, le lamiere si contorcono dal peso di questa esistenza inutile, unici materiali a resistere al ciclo vita-morte-vita, senza miracoli salvifici.
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