Non è semplice scrivere dei Wire. Il gruppo inglese che il 26 febbraio 2009 ritorna al Circolo dopo un’assenza durata un annetto, ha pubblicato qualcosa come 11 album ed una ventina tra singoli ed Ep, il tutto cominciando dal 1977, anno di svolta della musica odierna, “the year the punk broke”, come direbbero non meno illustri contemporanei. Tutti, chi più, chi meno, influenzati dai Wire. L’ultima volta che sono capitato da queste parti è stato a Dicembre, al concerto dei Black Angels: poi per dire la verità la programmazione del Circolo mi ha lasciato un po’ freddino, tranne
stasera. L’anno scorso sono venuto a vederli per la prima volta i Wire: spettacolo entusiasmante, una carica sul palco da far impallidire la maggior parte delle giovani band che girano spesso da queste parti. La vecchia scuola post punk inglese ha ancora molto da insegnare ai ragazzini di oggi. Perciò il tributo di 15 euro richiesti per l’entrata viene pagato
volentieri e l’apparizione sul palco di Colin Newman (voce e chitarra), Graham Lewis (basso) e Robert Grey (batteria) con l’aggiunta di Margaret Fiedler McGinnis (chitarra, ex Laika e collaboratrice di PJ Harvey) al posto di Bruce Gilbert durante i tour, scatena l’entusiasmo del pubblico. Non da tutto esaurito questa sera, come l’anno passato, ma accorso numeroso per omaggiare gente che da 33 anni insegna l’arte del punk rock a tutto il mondo.Come per lo show precedente, l’intenzione dei 4 leoni di Londra è di riaffermare la propria genialità a tutt’oggi resa immortale dai loro capolavori precedenti; e, perché no, mostrare che hanno ancora il loro suono ha ancora i denti affilati, come dimostra Object 47, ultimo disco del 2008. E dalla traccia d’esordio dell’ultimo album pubblicato l’anno scorso si capisce che i Wire amano continuare a fare musica, sperimentare nuovo materiale, suonare, suonare e suonare: On of Us è un pezzo che occhieggia alla New Wave anni ’80. Qualcosa di simile ai New Order, ma con molta più benzina in corpo e rumore che si espande in maniera sempre più dilatata sul finire dei pezzi. Si muovono ancora molto sul palco i leoni inglesi, e sanno graffiare con le loro chitarre elettriche, come dimostra Mekon Headman, perfetto sintesi di suono eighties e vocione dark. Non ci resta altro da fare che ballare come ossessi, muovere la testa in continuazione seguendo i riff sempre più potenti di Newman, che in un crescendo di rumore ci porta all’estasi totale. Lo stile inconfondibile di un gruppo fantastico.Object 47 è il 47esimo oggetto della sterminata produzione discografica dei Wire, un vulcano in eruzione incapace di fermarsi e che fa scendere le sue colate distorte sulle sue pendici musicali senza soluzione di continuità. Riunitisi ad inizio millennio, dopo circa un decennio di inattività, i Wire oltre ad Object 47 hanno pubblicato il precedente Send, molto più sostanzioso, capolavoro che dimostra la facile istrioneria del gruppo: anche stasera In The Art Of Stopping fa sobbalzare il locale con le sue frenate continue ed accelerazioni improvvise; e la furia di Comet, da cui si rintracciano le origini punk del gruppo, insieme a pezzi come Nice Streets Above, splendida gemma dai connotati più dark ed industrial, o la visionarietà della semistrumentale Read & Burn. Sia Object 47 che Send sono entrambi editi per la Pink Flag, label autogestita che prende il nome dal primo, fortunato disco dei Wire. Ed è dal mastodontico Pink Flag che i Wire suscitano emozioni devastanti nella mente degli ascoltatori, ed è proprio a Pink Flag che Newman & soci attingono a piene mani per soddisfare il bramoso pubblico di stasera. Pink Flag è un album del 1977, uno degli anni più importanti della storia musicale mondiale, in cui i Sex Pistols pubblicavano Anarchy in the UK ed i Clash posavano la prima pietra della loro incommensurabile costruzione.Capisaldi di una generazione, e monolite nero su cui si posavano gli sguardi dei contemporanei che indicavano col dito e non sapevano darsi una spiegazione: le origini del punk, riflesso di una società incapace di capire e dialogare con i giovani, tara ereditaria che ci portiamo ancora dietro e probabilmente problema insoluto dell’umanità. I Wire, parte di questo triangolo, di questa piramide musicale, seguivano il lato più oscuro del punk, lontano dalle oscenità e dai furori di Johnny Rotten & soci, e dalle influenza politiche del compianto Joe Strummer. Anticipavano in maniera previggente ildecennio dark per eccellenza, con le loro asprezze sonore (Lowdown), quelle chitarre rigonfie di distorsioni (Pink Flag stessa), quella inquietudine che ogni tanto spuntava fuori da pezzi come Strange e la genialità di pezzi come Dot Dash.
Dopo bis e tris, richiesti a gran voce dal pubblico insaziabile, c’è ancora in programma il concerto dei Metronomy, un terzetto di Brighton, già support dell’ultimo tour dei Bloc Party: tre tizi con chitarre, tastiere e portatili che sparano electro-pop. Con tutto il bene che si può volere loro, ed il coraggio che dimostrano, mi chiedo chi è il folle che osa suonare sul palco dopo un live dei Wire. Seguo solo il primo pezzo, anzi, mi accontento di arrivare alla sua metà. Poi abbandono la sala, per conservare intatto nelle orecchie On Of Us e dirigermi canticchiandola verso l’uscita…P.S. Se magari l’anno prossimo dovessero ripassare da queste parti mi travate di nuovo lì. Al 100%. In prima fila.
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