Una strada, una macchina, un musicista guida nel traffico milanese:
è concentrato, fissa al di là del vetro,
estrapola pensieri, si spiega, esplora
e ogni parola non è scelta a caso,
come le strade che forse in questo breve tragitto
accompagnano a qualcosa
che non si potrà certo definire “solo musica”.
Sono senza voce.
Sorpreso, scosso, colpito in pieno viso dal tragicomico rumore di un martello uncinato ben saldo fra i denti anteriori.
Sorpreso perché questi non sono gli Afterhours assaporati negli ultimi vent’anni o, almeno, non sono gli stessi che, dall’idroscheletrica struttura concava di una “certa” Joycut perduta chissà dove (magari in quegli ormai lontani anni ’80 da cui, purtroppo, pare non si esca quasi mai vivi), hanno avuto l’indubbio gusto e la sottile volontà di recidere, con taglio netto e trasversale, ciò che fino ad allora era stato abilmente codificato e cesellato in un certo modo di intendere il “far musica”.
Sorpreso perché, finalmente (o forse no), di testi cut – uppati, filtrati nella causalità del volutamente sconnesso e antitetico, se ne comincia davvero a fare a meno, in favore di una lucidità grottesca spesso allarmante e distruttiva, desolante, matura.
Niente più giocattoli vibranti, né l’inadeguatezza esistenziale di un sentirsi tristemente inadatti ed incapaci a volare.
Qui, casomai, c’è la “complicità nel volo”, ci sono figli, matrimoni, convivenze.
Case.
Quotidianità.
Sporco.
Che questo, poi, abbia fortemente modificato l’approccio compositivo della band di Agnelli e la qualità musicale della formula pentagrammata proposta dal gruppo milanese, non può che rivelarsi un’intuizione corretta fin dal primissimo (eventuale) premere PLAY sulla pulsantiera dello stereo.
L’acidità psichedelica del passato lascia spazio ad un’introspezione arresa, così come sparisce definitivamente il post – grunge à la Male di Miele in favore di una violenza più limpida e razionale, spietata.
Calcolata battuta per battuta.
La stessa Pochi Istanti Nella Lavatrice, l’episodio forse più straordinariamente brutale e selvaggio dell’intero lavoro, si rivela presto come un’entità capace di sprigionare “altro”, in grado di arginare l’irruenza viscerale della strumentazione elettrica con un impianto scenico (cinematograficamente parlando) arricchito, senza pomposità retoriche, da orchestrazioni colme di archi, cori e fiati.
E proprio qui, l’inserimento stabile in formazione di Enrico Gabrielli, oltre alla presenza di un “certo” John Paris dietro il banco di produzione, risulta essere la vera marcia in più dell’opera tutta : la pressoché totale mancanza di convenzionalità nell’uso degli strumenti a fiato, il loro sviluppo concertistico, complementare all’utilizzo delle chitarre, riesce a trasfondere una profondità inedita perfino a quei brani cupi, dall’incidere gravoso e lento, da sempre contraltare oscuro di quell’anima ironica e sfrontata messa in luce da Germi in poi.
Ne è un esempio la stessa titletrack I Milanesi Ammazzano Il Sabato o la nenia apripista del Naufragio Sull’Isola Del Tesoro … e poi via di corsa, avanti verso il binomio È Solo Febbre / Riprendere Berlino.
Si ha quasi la sensazione che la voglia di giocare e di rimettersi in gioco sia tangente ad un incredibile bisogno di sperimentazione sonora, di tensione incessante verso nuove formulazioni pratiche elementari.
Insomma, quei “milanesi che ammazzano il sabato” non sono altro che quattordici brani concepiti come un’unica carrellata di immagini, senza l’hype radiofonico – prezzolato di un album composto da un solo singolo spilla – quattrini e da altre tredici composizioni meramente riempitive (se si vogliono prendere in prestito le parole dello stesso Agnelli), vuote per contenuti e spirito.
C’è aria nuova, dunque.
C’è una band fresca di promozione, di tournee estera, di ritrovata sincerità, di leggerezza non patetica.
Una band senza pudore e senza pippe.
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