L’attuale scena musicale internazionale, quella in cui annaspiamo come sopravviventi appestati da un’infinita orda di mestieranti di bassa lega e musicisti modaioli, il cui unico dovere verso noi “ascoltatori” (quanti di voi “ascoltano” musica e quanti la “sentono”?) dovrebbe esser solo quello di rinchiudersi in una baita di montagna ed impiccarsi (piuttosto che propinarci la solita schifezza da impegnati artisti del niente), proprio per la massificazione che la contraddistingue, ha il demerito – molte volte – di far passare in sordina veri e propri diamanti musicali che, in altra epoca, avrebbero fatto urlare al miracolo per la bellezza e la maestria con le quali sono stati composti.
I Wire Train ed il loro omonimo album ne sono un pratico esempio, così come può esserlo anche l’intera produzione degli scozzesi Blue Nile, veri e propri precursori di quella musica sintetizzata che oggi fa tanto figo.
Mark Lanegan (ex – Screaming Trees), ai più noto solo per aver partecipato a quel capolavoro dei Queen Of The Stone Age che fu Songs For The Deaf (e perché il suo nome, in sede live, è stato spesso accostato, negli ultimi anni, a quello di Manuel Agnelli – come se Manuel Agnelli dovesse essere l’unico motivo per vedere Lanegan dal vivo, mah), è il tipico esempio di “artista da parete”, condizione tipica di quelle persone di cui si conosce l’esistenza, ma di cui si ignora l’operato, nonostante tutti, con presunta cognizione di causa, ne parlino bene.
Dunque, parlando di Mark Lanegan, come non citare Field Songs?
Uscito nel 2001, acclamato in tutta fretta dalla stampa specializzata come pietra miliare degli anni 2000 e con altrettanta rapidità dimenticato in favore dell’ininterrotta ricerca di una qualsiasi “big thing” che ci faccia sentire intelligenti, Field Songs è un lavoro di pura emozione.
Stop.
Un concentrato di poesia e cattiveria che ti entra nelle budella per farti sputare tutto l’alcol a buon mercato bevuto per atteggiarsi a maledetti, baudelairiani flaneur dall’esistenza tormentata quando in verità l’unico tormento assaporato è quello della mediocrità dell’abitudine quotidiana; un pugno allo stomaco di dolcezza e sofferenza capace di rovesciarti il cuore in una pozza di nera e tetra malinconia.
Inutile stilare una lista di pregi e virtù di ogni singola canzone, così com’è inutile chiedersi se sia meglio il Lanegan elettrico di No Easy Action o quello soffuso di Resurrection Song: Field Songs va ascoltato tutto, da One Way Street a Fix, con la devozione e la riverenza con cui ci si approccia all’intoccabile.
Etichetta: Beggars Banquet
Anno: 2001
Tracklist
01. One Way Street
02. No Easy Action
03. Miracle
04. Pill Hill Serenade
05. Don’t Forget Me
06. Kimiko’s Dream House
07. Resurrection Song
08. Field Song
09. Low
10. Blues For D
11. She Done Too Much
12. Fix
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