Evoluzione.
Doveva esser questa la parola – chiave che, un paio d’anni fa, sembrava circolare nelle teste dei cinque progster newyorkesi: lontani anni luce dagli stereotipati canoni di ambigua continuità tanto cari alle migliaia di cloni musicali sparsi nel mondo dopo l’uscita di quell’immane capolavoro sonoro il cui nome è Scenes From A Memory, Mike (il compianto Mike, il vergognoso Mike) & Soci, dopo la pubblicazione proprio del suddetto lavoro, decisero di intraprendere e solcare un’originale, quanto coraggiosa, carriera artistica fatta di sperimentazioni, venature smaccatamente heavy e tecnicismi barocchi, con quell’occhio sempre rivolto alla melodia, però, che, con il passar degli anni e con altrettanto olio di gomito, ha contribuito a gettare le basi di un vero e proprio marchio di fabbrica, un vero e proprio modo d’intendere il progressive metal.
Così, abbandonati gli esperimenti post – trash di Six Degrees Of Inner Turbulence e le virate nu – metal del successivo Train Of Thought, i Dream Theater, nonostante le pressanti voci di sterilità artistica, avevano ancora la capacità (ed il potere) di sorprendere ulteriormente la loro mastodontica mole di proseliti con un album che, al contrario delle quanto mai vaghe aspettative di ipotetici ed agognati ritorni alle origini, si confermava come l’ennesima pietra miliare nella carriera di una band entrata a pieno titolo nell’olimpo del metal moderno (e questo che lo si voglia o meno).
L’ennesima evoluzione verso uno stile ed una raffinatezza che, almeno nel 2005, aveva ben pochi eguali.
Octavarium inizia proprio dove Train Of Thought aveva, sapientemente, saputo calare il sipario e cioè sulle epiche andature dell’altrettanto epica In The Name Of God: l’ultima nota di quella imponente suite è, difatti, la prima di The Root Of All Evil, opener di quest’ottavo disco targato Elektra Records .
È un pezzo che macina classe passo dopo passo e che prosegue le concept songs sull’alcolismo iniziate tempo addietro con The Glass Prison e continuate in This Dying Soul, con le quali sembra essere anche in perfetta sintonia compositiva: solido mestiere, dannatamente trascinante .
Ma le vere sorprese, quelle che costituiscono il motore pulsante di Octavarium, non tardano ad arrivare e così, dopo nove minuti di chirurgica violenza, tutto sembra improvvisamente acquietarsi e quei disperanti paesaggi di perdizione lasciano il posto ad un’atmosfera sulfurea, sfuggevole e delicata, maestosamente dipinta dal pianoforte di Rudess .
È il turno di The Answer Lies Within, una dolce ballata dal cuore tenero che in più occasioni sembra vagheggiare gli orizzonti dorati della awake – iana The Silent Man o meglio ancora Hollow Years; sicuramente uno degli episodi che ha fatto più discutere gli intransigenti, ma ciò non può cancellare la constatazione di trovarsi davanti ad un piccolo gioiello .
Neanche il tempo di assaporare le ultime, incantevoli, armonie di Rudess che la chitarra baritona di Petrucci, satura e distorta come altre poche volte avevamo avuto l’occasione di apprezzare, ci introduce a These Walls, brano ancora una volta impreziosito dai synth del buon Jordan, vero talento dei tasti bianchi, e dalla ritmica martellante del combo composto da Myung e Portnoy, forse uno dei migliori dai tempi dei Death Hoglan – Di Giorgio.
Ipnotica, immediata.
A sorprenderci (e forze anche a spiazzarci) ci pensa la successiva I Walk Beside You, brano composto per esser lanciato come singolo, dal forte hype radiofonico (e non a caso “accompagna” il teaser trailer del doppio DVD Live Score): un’inedita melodia solare sulla scia dei migliori U2 (com’era un po’ avvenuto per New Millennium); tra l’altro, è una delle poche canzoni degli ultimi Theater a non avere assoli di alcun tipo.
Panic Attack arriva come un fulmine a ciel sereno, con il suo attacco furioso e con un Myung che letteralmente tortura le corde del suo basso (ricordando, per certi versi, Steve Harris in The Clairvoyant): chitarra e tastiera all’unisono in un continuo rincorrersi, doppia cassa frenetica, voce filtrata.
Uno dei migliori pezzi dell’album.
Non è affatto difficile riconoscere le influenze dei Muse in Never Enough, brano che riprende fiato proprio nella voce filtrata di LaBrie e che sembra in qualche modo voler omaggiare quella Stockholme Syndrome della band di Matthew Bellamy, di cui tutti e cinque i musicisti si sono sempre dichiarati grandi fan.
La tracklist continua con Sacrificed Sons, ballad mid – tempo di undici minuti dedicata alle vittime dell’11 Settembre, in cui i nostri ci regalano un’altro, immenso colpo di classe: la presenza di un’orchestra sinfonica (diretta da Elena Berere) pronta ad esaltare ogni singola nota sprigionata dagli strumenti dei cinque del Rhode Island.
Orchestra che ritroviamo anche nell’ultimo (l’ottavo) brano del disco, l’immensa titletrack, Octavarium: lunga suite di 24 minuti a cui spetta l’onore di chiudere, in un moto perfettamente circolare, il discorso iniziato con The Root Of All Evil ( … this story end where it began …, canta LaBrie).
Per tutta la sua durata, il pezzo sembra volerci in qualche modo ricordare l’intera storia del progressive rock, con un intro di continuum dal sapore pinkfloydiano (quelli di Shine On You Crazy Diamond, per intenderci) che, dopo alcuni passaggi in perfetto stile Jethro Tull, con tanto di Moog analogico, ci traghetta verso quegli accattivanti lidi melodici che tanta fortuna arrisero al neo – progressive degli ’80, con gruppi come i Marillion ed i Pendragon di Clive Nolan.
E si va avanti così, con omaggi agli ELP, riferimenti ai Genesis, il tutto condito con un sano pizzico di metal che può finalmente tornare a sprigionarsi, libero, nelle ultime andature del brano, attraverso l’ottima interpretazione del sottovalutato (e, negli ultimi anni, sottovalutabile) James LaBrie il quale, in un perfetto moto di auto citazionismo e sottile referenzialismo, “urla” strofe, versi e ritornelli di canzoni tutte da conoscere.
La potenza di Octavarium sta proprio qui: nel saper ritracciare e ridisegnare i confini della ventennale carriera di una band di così alta caratura senza mai piegarsi su se stesso, senza scendere nel banale, nel compromesso e nel già sentito, aprendo costantemente nuove soluzioni ed interpretazioni (checché ve ne dica Ondarock).
Ci penseranno i successivi Systematic Chaos e Black Clouds & Silver Linings a rovinare tutto.
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