La prima volta che ho sentito parlare dei Waines è stata l’anno scorso. Si stava organizzando il Percorso dei Sensi a Crotone ed un mio amico che organizzava la manifestazione culturale aveva avuto una mezza idea di chiamarli per una delle serate. Poi non se ne fece niente. Io però andai ad ascoltare i pezzi sul loro space giusto per farmi un’idea e rimasi abbastanza (s)colpito. Per cui appena arrivata la notizia del loro terzo album mi ci sono tuffato immediatamente .
L’idea che mi sono fatto a quel fugace primo ascolto viene sostanzialmente ribadita da STO, uscito il 15 aprile senza etichetta, ma con distribuzione Audioglobe: power blues ad alta ballabilità, che colpisce immediatamente l’ascoltatore senza lasciargli il tempo di riflettere. La prima volta che mi è venuto in mente il termine power blues è stato all’ascolto dei 22-20s. I Waines condividono con gli inglesi la propulsione muscolare, ma se ne distanziano immediatamente per grooves facili ed orecchiabili. La prima infuocata traccia è esemplare: in Turn It On si annusano echi dei Primal Scream di Miss Lucifer ma scevri delle inclinazioni tecno-industrial di Gillespie e soci ai tempi di Evil Heat. Visto che oggi sono in vena di neologismi, facciamo che è disco-blues. Non sembra nemmeno che passino 4 minuti. Forse è tutta colpa della Time Machine con cui veniamo proiettati direttamente a passo più lento e pesante nel ‘76 (non vi diciamo il secolo preciso, ma lasciamo ai Waines svelarci il segreto a fine disco). Fabio Rizzo, Roberto Cammarata e Ferdinando Piccoli si avvicinano sempre di più al cuore pulsante del blues in Afrix osservando con occhi trasognati paesaggi spesso sognati da Peter Hayes. L’intro di Round Glasses ci porta in sella ai Ponys per poi lasciarsi andare a stranianti deviazioni argentine. Non nel senso di provenienti da Buenos Aires, naturalmente. La strumentale Inner View invece aumenta i giri del motore prima di The Pot, che dimostra una facilità e padronanza del genere veramente notevoli. Nella parte finale sembra quasi di ascoltare i fratelli White alla fine di uno dei loro ultimi show. Perché si sono sciolti, ma non nell’acido, perché qui ce ne è poco. Al massimo qualcosa di (agro) dolce, come in Morning Comes che sa di whiskey, fumo e delta del Mississippi. Giusto a metà rispetto a dove l’album dei Waines è passato: mixato da Mario J. McNulty a New York e masterizzato da JJ Golden a Ventura, California. E’l’America, bellezza, con quelle belle e grosse macchine luccicanti che percorrono strade lunghe e dritte ed attraversano paesaggi immensi in cui osservare gli uccelli che volano alti. Da noi invece sono Harsh Days un po’ per tutti, ed i Waines sembrano ricordarcelo con questo pezzo ciondolante. E con il loro blues che altro non è che musica per l’anima. De li mortacci tua direbbero a Roma. Quindi chiudiamo il disco con Keep It Fast per correre veloci e dimenticarci di tutto, grazie a riff potenti ed un rock che sembra quasi sfiorare la dance. A voi sembrerà impossibile, ma ai Waines no.
apr 17
Commenti Recenti