Tra americana e spaghetti western la nuova ventura discografica dei Guano Padano abita il nostro tempo, pur sfuggendo la nomenclatura dei luoghi e costumi urbani. Il trio dopo aver conquistato la critica internazionale con il debutto omonimo – originariamente edito nel 2009 da Important, una delle più qualificate indipendenti del nostro tempo – torna con un secondo album che ne amplifica ulteriormente la componente cinematica. Sono la chitarra di Alessandro Stefana, la batteria e le percussioni di Zeno De Rossi, il contrabasso e il basso elettrico (occasionalmente anche l’organo) di Danilo Gallo a dettare i tempi di questa immaginifica pellicola. E’ uno scenario polveroso e propiziatorio quello di “2″, cornice ad una sintomatica sfida all’ultimo respiro. Un disco che padroneggia con disinvoltura ipotesi attorno alle musiche di confine, andando a rovistare nell’oceano della world music, scomodando miti e leggende del pre-war folk, stuzzicando una rivalità con personaggi in vista del jazz creativo (Bill Frisell, Eugene Chadbourne) e solcando a più riprese i mercati d’Oriente. E’ un disco incredibilmente ricco, quasi un album fotografico da sfogliare con ardore, in attesa di nuove e mai scontate epifanie. La chitarra del sodale Marc Ribot si fa largo tra le maglie dell’intro made in China di “Miss Chan” e risale il guado grazie ad una memorabilia surf da brividi. I fuochi d’artificio sono inaugurati da Mike Patton – Stefana è uno dei musicisti scelti nell’itinerante progetto Mondo Cane – in “Prairie Fire”, come un thriller ambientato nelle luci sfocate della prateria. Tra sirene e rumori sinistri, le chitarre preparano il campo ad una performance che farebbe saltare sulla sedia anche un tipo smaliziato come Jim Jarmusch. Quando è la viola del polistrumentista Paolo Botti (vi prego, cercate il suo tributo ad Albert Ayler) a segnare il passo in “Bellavista” sembra di sprofondare in una balera affollata da redneck, mentre nell’ossequiosa “Lynch” il gioco è ancor più peccaminoso, con fitte di cool jazz che sembrano rimandare alle provocazioni dei primissimi Lounge Lizards. Il theremin di un’altra stella della nostrana avanguardia come Vincenzo Vasi rende il gioco più prossimo ad un cine forum d’antan. Si flirta con il jazz e si vanno a scomodare personalità della downtown newyorkese come Chris Speed - suo il clarinetto nell’atipico stomp surf di “Gran Bazaar” – e Ted Reichman (numerose uscite con il Claudia Quintet per Cuneiform ed un memorabile disco in solo per la Tzadik di John Zorn) – che accarezza il piano in “Gumbo” (ancora una volta il cinema…) e suona la fisarmonica nell’esplicita “Nashville”, che guarda caso si avvale anche dei field recordings dell’eroe di casa Paul Niehaus, uno dei membri fondatori dei Lambchop. L’epilogo spetta al calligrafico tributo a Santo & Johnny con “Sleep Walk”, numero che chiude regolarmente i concerti del gruppo. Guano Padano ha infranto ogni legge occidentale ed il sospetto è che la taglia sulla sua testa sia lievitata a dismisura. Banditi di classe.
feb 02
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