Questa è la lacrimevole storia di un lungo addio, sia per le atmosfere di cui è impregnata questa umida serata, sia perché siamo giunti di fronte ad un incrocio: a queste punte le strade si dividono, e gli Arab Strap hanno deciso che era meglio finirla lì. Lo diceva anche il magnifico poster che pubblicizzava l’evento e che ho provveduto a sfilare dalla porta del Circolo qualche sera prima. Era la copertina del loro ultimo lavoro ed ultimo per davvero. Una sala adibita a festa, Aidan e Malcom buttati su un divano, due musi lunghi lunghi, palloncini colorati in giro tra tavolini, bevande consumate e piatti di carta usati rimasti a prendere aria all’aperto: una bella festa di pensionamento in piena regola; in alto una scritta sarcastica che diceva: “Enjoy Your Retirement, Arab Strap. Ten Years Of Tears!”. E dieci anni di lacrime sono state, sissignori, dolci ed amare, come insegna nostra signora l’Intraspezione, questo strano personaggio che si impadronisce di alcuni geni musicali e li eleva fina a sublimarli ed a farli entrare a pieno diritto nella storia della musica…
L’opening act è affidato agli Outoftunes, band italiana formata circa un annetto fa, ragazzi provenienti da altre due band quali Pseudofonia e Radiolondra: impregnato di brit pop fino al midollo, si dilettano anche nella new wave con una chiara matrice indie. Suonano molto bene e riescono a far muovere un po’ di gente con gusto e morbidezza di suoni: molto interessante Hungover Again, gli altri pezzi risentono un bel pò dell’influenza di Albione e di una interessante propensione per il cantato madchesteriano. Da fonti molto attendibili scopriamo che uscirà presto il loro album di debutto.
Attendiamo fuori quando all’improvviso sentiamo il suono di cornamuse che ci richiamano come sirene nella notte, e ci distolgono dal vociferare e dalle parole vacue dell’umanità: è Loch Leven (Intro), ed io ritorno immediatamente indietro nel tempo e mi ritrovo in una medievale Edimburgo, circa una decina di anni fa, lungo la via principale dove un ragazzo col kilt fa vibrare questo dolce strumento davanti a noi, sbarbatelli ragazzini sperduti nel mare della campagna scozzese fatta di colline cha vanno su e giù come onde verdi, ogni tanto inframezzate da piccole imbarcazioni con i tetti ed il camino…e mi piace immaginare Antonio ancora lì, magari a chiacchierare sotto il castello della città con un autista punk pieno di tatuaggi e dirigersi verso un pub insieme a lui…Gli scozzesi sono molto simpatici, e questi lo sono ancora di più nonostante la propensione al drammatico ed i testi toccanti: ripercorrono i loro dieci anni di attività alternando anche momenti intensi e rumorosi, come una buona band rock pop sa fare. Stink suona molto intensa, dimostrando come funzioni a meraviglia la formula che ai testi malinconici firmati e cantate da Aidan Moffat sovrappone, da contraltare, le atmosfere ora sonore e rarefatte, ora dense ed esplosive di Malcom Middleton. Il duo, motore del gruppo, prosegue con Fucking Little Bastards brano rumorosissimo dell’album Monday at Hug & Pint (2003) per la Chemikal Underground, etichetta con la quale hanno prodotto la maggior parte dei loro lavori. Ne ho acquistato prontamente al banchetto delle vendite prima che finissero le munizioni ed iniziasse il concerto. Ask Me To Dance segue subito dopo, ma accade che il gruppo stecca! Niente paura, Aidan avvisa il pubblico che qualcosa è anadato storto, e si riparte da dove si era iniziati: il pezzo è tutto un vibrare per le splendide linee di basso e la poesia della chitarra di Malcom. Perfezione assoluta e buona la seconda. L’album in questo caso è The Last Romance, uscito nel 2006 e che conteneva già nel suo titolo i primi germi delle divisioni interne tra il duo più incazzoso della storia di Scozia. Poi parte Dream Sequence, sempre dello steso album: l’intro potrebbe suonare come un qualsiasi pezzo dei Coldplay ma appena Aidan si avvicina al microfono il pezzo assume un’altra direzione: la voce calda ed intensa è ben diversa da quella di Martin ed inoltre le geometrie di Malcom straziano con gentilezza il corpo della canzone. Pyjamas fa ripiombiare tutti nel silenzio e l’arpeggio suona come una giornata piovosa passata davanti ad una finestra e annullata in un dialogo sordo sotto i cupi cieli di Scozia. Who Named The Days? riporta tutti a respirare nuovamente dopo la lunga apnea e ridà un po’ di luce al palco, dove i due protagonisti sono tanto vicini, ma contemporaneamente tanto tanto lontani…Ecco fare capolino Piglet, una iniezione ed una lezione di malinconia arpeggiata, facente parte tra l’altro di un album live il cui titolo non lascia scampo a dubbi di sorta: Mad For Sadness, registrato nel 1998 al The Queen Elizabeth Hall di Londra. Speed Date ci manda in altalena un po’ tutti quanti, e sicuramente esce come uno dei migliori pezzi della serata ma poi arriva New Birds e si continua così, in una alternanza tra malinconia e parti un po’ più sostenute che rendono la dimensione live di questo gruppo sicuramente unica. There’s No Ending sembra chiudere il sipario, come una goccia di commozione che si schianta al rallentatore per terra, ma c’è tempo per una mirabolante The First Big Weekend, primo singolo rilasciato dal gruppo e contenuto anche nel primo album, The Week Never Starts Round Here (1996) ed una dolce pioggia di suoni scende su di noi con leggerezza inusuale, e progressivamente più forte: il gruppo esce, ma sul palco per il bis si ripresentano solo Aidan e Malcom alla resa dei conti tra loro e con i loro fans, come un duello rusticano. L’effetto è un viaggio onirico su arpeggi delicati ed i sussurri piacevoli per non ridestare dai sogni le pupille contemplanti degli spettatori: Here We Go dell’album Philophobia (1998) ne è un esempio sublime.
Si conclude la serata con le foto assieme a Malcom ed Aidan, che ci raccontano il loro disinteresse per il calcio, unico schema mentale con cui noi italiani siamo sempre abituati a ragionare (siete di Glasgow?tifate Celtic o Rangers?). Malcom è più introverso: già proiettato verso la sua carriera solista, non vuole chiedere la penna ad Aidan per firmarci l’auotgrafo. Quest’ultimo, lattina di birra immancabilmente in mano, sguardo vispo ed occhietti che puntano ogni cosa, ci dice che la prossima tappa sarà Bologna e poi Firenze, Milano, Parigi, Manchester, su, sempre più su, a nord di ogni cosa, fino ad arrivare alla divina Scozia dove il placido silenzio delle verdi colline ondulanti sotto cieli grigio piombo, avrà come sottofondo le note di malinconia dell’ultimo concerto di un gruppo che torna a casa per sciogliersi, così come fa un vecchio romantico che tornare nella sua mai dimenticata casa per dire addio a questo ed ad altri mondi…Oh, when you go…
mag 02
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