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mag 02

Babyshambles + The Styles @ Piper

Babyshambles

Ovvero, storia di un concerto sul filo del rasoio, a metà strada tra un live punk rock d’altri tempi, come difficilmente se ne vedono in giro ultimamente, ed uno sfrenato tentativo di mettersi in mostra accettando pienamente e consapevolmente i cliché del sempre più ipercinetico ed onnivoro showbiz. L’arrivo della band di Pete Doherty a Roma era stata preparata con cura dettagliata, addirittura, dopo essere stato in programma all’ormai ben noto Circolo degli Artisti, si era scomodato persino il pluriblasonato Piper, il famoso locale di via Tagliamento, sede di innumerevoli concerti di band storiche negli anni’60 e ’70, ma subito dopo divenuto più che altro una discoteca tra le più frequentate dai ragazzi (e quando dico ragazzi intendo proprio ragazzi…) della Roma bene (è infatti situato alle porte del quartiere Parioli…). Avevamo preso il biglietto con una settimana d’anticipo, consci del pericolo di rimanere fuori se mai l’iperattivo Pete, cantante e compositore tutto genio e sregolatezza, dovesse combinare un’altra delle sue ormai consuete cavolate, e di fatti, come quasi per darci ragione, giorno dopo giorno cresceva l’attesa per questo benedetto concerto. Si scomodavano i giornali nazionali con articoli sempre più frequenti sulla presunta gravidanza di Kate Moss, sul decalogo che questa avrebbe consegnato a Pete per evitare scappatelle con le groupies, allegre sciate sulla neve (non quella di Cortina naturalmente, visto che il ragazzo entra ed esce dai centri di disintossicazione come farebbe con il portone di casa sua…) e rimanere una coppia stabile, sempre in prima pagina, consentendo alla ben nota modella una inflazione pubblicitaria paragonabile solo alla vendita della coca (qui naturalmente parliamo di cola) durante i mondiali di calcio. Ma fino a che punto tutto questo clamore non conviene anche a loro? Prima rispondere a questo importante quesito andiamo con ordine…
Arriviamo al Piper per le 21.30, proprio per l’orario previsto di inizio concerto. La folla di fronte al locale è qualcosa di inaudito!Decine, anzi, un centinaio di persone in fila (vabbè, la fila come la sappiamo solo fare noi in Italia…) in attesa di sapere se potranno entrare o no. Scivoliamo tra la folla grazie ai nostri preziosi tagliandi e scendiamo le scale che danno alla sala interna dove è situato il palco, ospitante un gruppo italiano di nome The Styles. La gente è assiepata in ogni angolo anche all’interno, anche se con Gabriele notiamo entrambi una cosa: sembra di stare alla recita teatrale di qualche scuola elementare. La gente al nostro fianco dimostra 17, 16 finanche 15 anni di età. Prendiamo da bere interdetti, considerando la possibilità di essere entrati nel posto sbagliato al momento giusto. Gli Styles completano la loro performance ed inizia la lunga attesa. C’è chi parla della possibilità di un duetto con i due fidanzatini, Pete e Kate, sul palco. Lo hanno fatto altre volte. Un ragazzetto al mio fianco inizia ad urlare trepidante per l’arrivo del suo idolo. Chissà se conosce i Libertines, la precedente formazione in cui ha esordito Doherty, ed in cui militava anche Carl Barat, notevolmente polemico con le uscite del leader dei Babyshambles, giudicate come un pericolo per sé e per gli altri. Dopo lo scioglimento dei Libertines (che ha prodotto complessivamente due album, il primo UpThe Bracket ed il secondo, il veramente considerevole omonimo The Libertines) la restante parte ha fondato il collettivo Dirty Pretty Things, che si pone, volente o nolente come antagonista al progetto Babyshambles.
Arrivano verso le 22.30, ed ecco il chitarrista che abbraccia la chitarra, il bassista che inizi il suo movimento ondulatorio ed il povero batterista (poi scopriremo perché…) che inizia a macinare battute. Pete se la prende comoda, ma appena entra si dirige immediatamente verso il microfono, lo prende e si lancia verso il pubblico senza esitare, sulle note di Pipedown, abbracciando violentemente il pubblico romano. Il rumore è fortissimo, l’acustica non è per niente buona ma lo show è eccellente ed il pubblico è entusiasta della performance. Decine di giovani con il cappellino nero fotocopia di quello portato da Pete, cantano a memoria buona parte delle canzoni di Down In Albion, prima e finora unica uscita del gruppo datata 2005.  Doherty ci mette del suo muovendosi fatto come una scimmia tra la sua chitarra, l’armonica con la quale addolcisce le canzoni ed una bottiglia di vino con la quale addolcisce il suo cervello, portatasi sul palco, e consumata tra un Killamangiro e Back from the Dead veramente notevoli. Scende verso il pubblico per accettare l’invito a fumare qualcosa di più sostanzioso di una sigaretta, e riparte subito dopo con un pezzo morbido come Loyalty Song. Si asciuga, si bacia con il chitarrista e riparte a cantare Stick and Stones, con accenti notevolmente reggae, stile The Clash. Le origini non si dimenticano, quant’è vero che i dischi dei Libertines erano prodotti da Mick Jones sulla mitica Rough Trade…
Vuole tutto il ragazzo stasera. Non contento di essersi messo a petto nudo e di mostrarci la pancia cirrotica, dopo aver spaccato la bottiglia inizia a tagliarsi sull’addome, sanguinando note rosse di sudore, frastornato come un matto per reggersi in piedi ma regalando meravigliosi momenti di magia e poesia con Albion. Di Kate non c’è traccia ed allora si parte con 8 Dead Boys, il ritmo si alza e lui non trova altro di meglio che lanciare l’asta del microfono verso il pubblico…lunghi momenti di sospensione nella vita dell’umanità…Dura un eternità questa scena, e quando l’asta ricade lentamente sul pubblico, a mò di replay, mi ritrovo a pensare due cose contemporaneamente. Pensiero 1: “Che figata! Non ho mai assistito a tante cazzate contemporaneamente! E’ un eroe. Sarà anche uno stupido idiota, ma è un’eroe!!”. Pensiero 2: “Ma si è reso conto che non siamo al CBGB?Che qui intorno ci sono solo ragazzini? Che c’è gente che non potrebbe capire il suo gesto ?Qualcuno dovrebbe spiegargli che le cose potrebbero mettersi male…”.
Verso la fine del secondo pensiero accade l’irreparabile: noto una macchia nera lungiforme che si alza dal centro della folla e prosegue la sua traiettoria volteggiando in aria come un gabbiano nero, ferocemente avvelenato, e volteggia, volteggia fino a raggiungere…la testa del povero batterista…che cade a terra…si rialza…e si dirige verso i camerini, accompagnato dalla sicurezza…
Gabriele mi avvisa che si è trattato di una bottigliata, di ottima fattura tra l’altro. Pete non ci sta. Dopo aver riflettuto un paio di secondi (chissà che fatica gli sarà costato…) con il microfono penzoloni in mano, prende un’altra asta del microfono e si dirige verso qualche povero malcapitato in prima fila colpendo i primi che si trovava davanti (per dire la verità senza neanche tanta forza: sembrava il sig.Burns che cercava di alzare un peso, solo che non c’era Smithers ad aiutarlo…). La security del Piper interviene per fermarlo. La security dei Babyshambles interviene per fermare la security del Piper. E’ la fine…
Dopo una decina di minuti il chitarrista del gruppo, rimasto sul palco imperterrito come una statua di sale, mentre timide note di riappacificazione di un’atmosfera pesantemente cupa fanno capolino, accenna all’intro di Fuck Forever. Sembra un richiamo. Pete torna infatti dal camerino soddisfatto e si mette alla batteria. Risultati miseri, ma la gente applaude lo stesso, non si sa se per prenderlo in giro o per ringraziarlo di non essere ancora andato via. C’è anche qualche fischio. Inizio a perdere le coordinate della serata e di quello che sta succedendo. Arriva il batterista dei The Styles a sostituire momentaneamente il ferito: quest’ultimo rientra quasi subito dopo sul palco (forse per la paura di perdere il posto). Non ci si raccapezza più, ma si capisce che ci sta spazio per altri due pezzi. Non è più la stessa cosa: il feeling tra gli spettatori e la band si è interrotto. C’è solo il tempo per un gran final col botto, con Fuck Forever. La distruzione totale di tutti gli strumenti presenti sul palco riassume contemporaneamente la fine, ma anche la sintesi del pezzo, della serata e di un gruppo che vuole restare fuori dalle regole o dagli schemi, capitanata da un leader che rimasto per ultimo seduto tra i rottami della batteria continua a picchiare col microfono sul piatto, quasi fosse un bambino a cui abbiano regalato nuovi giocattoli e non abbia da fare altro di meglio che romperli…
Restiamo fuori per un po’ ad attendere l’uscita del gruppo, ma di loro non c’è traccia. Ci stanno solo inutili cloni e miseri duplicati che gironzolano attorno al furgoncino della band in attesa di una foto od un autografo. Qualche giornalista a caccia di scoop e non solo…Decidiamo di andare via, disgustati, perdendoci quindi tutto il seguito della storia e della pazza serata romana di Doherty & Co., che non ho visto di prima persona ma che i più attenti di voi potranno scovare, se mai ne avranno voglia, sul web. A fine serata, tornando verso casa, sorgono comunque spontanee alcune domande, su ciò che è accaduto, su ciò che comporta il dover fare notizia a tutti i costi e sulla necessità di essere sempre sulla cresta dell’onda. Ma senza inutili giri di parole una considerazione mi sembra molto più importante di tutte: quando, dopo un concerto, si parla di tutto tranne che di musica vuol dire che il contorno della torta è molto più buono della fetta…

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