C’era una volta una città, nel nord ovest degli Stati Uniti, nello Stato di Washington, dove fare musica significava appartenere ad una certa scena indipendente, fatta di rumore, jeans strappati e camicioni a quadretti di flanella buffi a vedere e lunghi lunghi. La città non era immaginaria, aveva un nome, alquanto buffo, che suonava più o meno così: Seattle. L’esplosione della scena musicale di questa città avrebbe fatto il giro del mondo tra i giovani di allora ed avrebbe colpito ovunque ed in qualunque momento, senza pietà, come avvenne all’inizio degli anni novanta, quando magari eri anche adolescente ed un po’ imbranato con le ragazze, non ci sapevi proprio fare, ti erano appena passati i brufoli e cercavi una teoria con la quale spiegare il mondo. A vedere quei ragazzetti un po’ folli gridare in continuazione il loro dolore e la loro agonia (Alice In Chains), approcciare con la melodia ed una voce sublime suoni frastornati (Pearl Jam), demolire con furia le convenzioni sociali dell’epoca e girare video su Mtv con uteri appesi agli alberi e malati terminali di cancro (Nirvana) e cercare geometrie sopra devastanti accordi noise (Soundgarden), ti sentivi confortato, riuscivi a capire un po’ meglio questo (s)porco mondo ed a liberarti di quella gabbia arrugginita e scappare via (Rusty Cage – Soundgarden). Purtroppo un bel giorno, proprio quando stava cominciando a piacerti, tutto quel sogno finì, consumato in un colpo di fucile, sommerso da milioni di dischi, vendite stratosferiche, interessi plurimiliardari e liti da comari di paese. Qualcun altro continuò con alterne fortune, qualcun altro si tirò fuori da quella scena e qualcun altro ancora non riuscì a liberarsi dei suoi demoni ma ne finì sommerso in una vasca da bagno…tutti quanti furono comunque concordi nello scrivere l’epitaffio di un movimento che aveva stravolto il mondo musicale di allora e ridato vigore al nostro amato rock in procinto di abbandonarci sotto la sterminata produzione disco e dance degli anni’80…tutti quanti tranne qualcuno. Ci fu anche chi decise di andare ancora una volta controcorrente e continuare su quella linea senza compromessi, tirando dritto come un tir contromano di notte, con l’acceleratore a fondo ed il pedale del freno ormai andato. I Mudhoney, per esempio.
Chi fosse stato contagiato dal morbo del grunge, avrà avuto sicuramente interesse e una maledetta curiosità nel sapere e capire da dove prenda origine questo fenomeno. Alcuni componenti dei Mudhoney, in particolare Mark Arm e Steve Turner, formarono uno dei primi gruppi grunge della scena di Seattle nel lontano 1983(!), quando, incontratisi con Jeff Ament e Stone Gossard, formarono i Green River. Dopo un paio di Ep il gruppo si sciolse ed Ament e Gossard finirono poi negli ormai famosissimi Pearl Jam mentre Arm e Turner iniziarono a lavorare sul progetto Mudhoney. Nel 1998 uscì “Touch me, I’m sick”, un 45 giri con una copertina da wc (da prendersi alla lettera), futuro singolo di uno degli album più belli mai pubblicati dall’etichetta Sub Pop, Mudhoney, del 1989. E da qui parte la storia di uno dei gruppi più amati della storia del grunge. Niente liti, niente vendite folli, niente esibizionismo, solo musica! La Sub Pop pubblicherà 4 album dei Mudhoney, in particolare i primi due, Mudhoney, appunto e Every Good Boys Deserve Fudge del 1991; dopo un periodo di allontanamento verso la metà degli anni ’90 in cui subentra la Reprise Records (Piece of Cake del 1992, My Brother the Cow del 1995, Tomorrow Hit Today del 1998), la collaborazione proseguirà con gli ultimi due Since We’ve Become Translucent del 2002 ed Under a Billion Suns (2006) che viene presentato stasera. Ed allora tutti al Circolo degli Artisti, a guardare con i nostri occhi un pezzettino di quella storia e di quel movimento, un tuffo in un passato non troppo lontano, con un pizzico di nostalgia ed un orecchio vigile per non perdere nemmeno un suono della presentazione dell’ultimo lavoro.
L’apertura della serata e effettuata dai Jennifer Gentle, unico gruppo italiano sotto contratto dalla mitica etichetta Sub Pop e già questo vuol dire molto. Riesco solo a vederli per un quarto d’ora, in coincidenza con gli ultimi due pezzi in programma, veramente niente male, ma non posso fare un giudizio, quindi lascerò solo qualche info utile. Il suono arrivatomi addosso appena aperta la porta del locale suonava vagamente di rock psichedelico e rumoroso, molto gustoso da ascoltare. Il batterista Alessio Gastaldello, e Marco Fasolo, sono accompagnati da tre musicisti si alternano a turno da concerto a concerto. Finora hanno pubblicato tre album: I am You are del 2001, Funny Creatures Lane del 2002 e Valende del 2006, l’unico pubblicato dalla Sub Pop.
L’attesa è snervante. Si va un po’ fuori a smorzare la tensione ed ad osservare il folto movimento di gente che arriva da ogni parte del centro e del sud Italia per venire a contatto con la band americana. Si rientra quasi subito, ma l’attesa deve ancora durare qualche minuto. Uno sguardo in giro, veramente un boato di gente, la posizione occupata è negativa, abbastanza distante dal palco, ma so già che non reggerò, dammi tempo qualche canzone e mi tuffo direttamente sul palco! Arrivano, eccoli lì, a salutare fugacemente il pubblico, imbracciare subito le chitarre e via! Partenza sparata come uno shuttle in fase di decollo, direzione: un universo qualsiasi, possibilmente un pianeta sotto un miliardo di soli! Suck you dry, suck you dry, suck you dry, suck you dry! Potenza altissima e velocità supersoniche attraversano le nostre orecchie rimettendo in moto i pochi neuroni bruciati che ci sono rimasti. Una botta violenta che rinvigorisce il pubblico, inizia il surf sulla gente e l’entusiasmo è all’ennesima potenza. I Mudhoney alternano pezzi del nuovo album, tra l’altro una fantastica It Is Us che ci lascia nelle orecchie un po’ il sapore degli esordi (e giocateci un po’ su con le parole…) alle vecchie glorie mai dome, e sempre in grado di regalarci emozioni assolute. Una devastante You Got It fa letteralmente saltare in aria il posto, e non mi resta altro da fare che abbandonare la trincea per avventurarmi lì dove la battaglia dilaga senza tregua. Il contatto con le camicione lunghe lunghe di flanella mi irrita un po’ la pelle (e non solo!) ed il caldo soffocante sembra quello di una qualsiasi estate a Saigon alla fine degli anni ’60. Le bombe che piovono per fortuna sono canzoni, ma hanno la stessa potenza del napalm in episodi esaltanti come Touch Me I’m Sick, Here Come Sickness, Flat Out Fucked. Riesco a scattare qualche foto nella convulsione del movimento della folla, approfittando dei pochi momenti di pausa che il ritmo si concede, con If I Think che lascia prendere un po’ di respiro nella lunga maratona notturna che riprende, più feroce che mai con una fantastica Into the Drink, e tutta la sterminata produzione di un bel po’ di tempo addietro. In’N’Out of Grace, è l’episodio culminante, la sublimità del grunge degli esordi raccolta e versata in una singola canzone. Sembra quasi che il disco in promozione passi in secondo piano, tanto è grande l’esigenza del gruppo di dimostrare di avere ancora una potenza di fuoco micidiale, dimostrabile essenzialmente con gli album precedenti. Tutto ciò mi ha fatto particolarmente contento, come un maiale nel fango, avendo una approfondita conoscenza dei lavori passati (assolutamente un must! Procurateveli immediatamente o non azzardatevi ad aprire la bocca ed a pronunciare la parola grunge!) poca degli ultimi…
…Che dirvi di più…un concerto che ho aspettato da tanto tempo, avevo provato ad immaginamelo in ogni modo, ma quando ci sei dentro è tutta un’altra cosa Le mie orecchie odono qualcosa di metallico, probabile causa di un corto circuito cerebrale, il nastro si riavvolge e si ritorna all’età di quando avevi 14 anni, una chitarra ed una voglia matta di spaccare il mondo…
mag 02
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