A cura di Alessio Cataldo
Se c’è una regola che con i miei amici deve essere rispettata quando si va per concerti è che la prima birra deve gonfiarti la pancia ma non deve appesantire il 730, così si entra in quei mini-market bangladesi aromatizzati alla cipolla e si esce con le mani occupate.
66 cl tracannati all’istante e una sigaretta aspirata nevroticamente giusto perché la band dentro non aspetta, ma la nostra non è scarsa professionalità, solo tanta sete.
Di corsa si scendono le scale del Sinister Noise, timbro d’ingresso sulla mano e via sul floor.
E’ bene precisare che quello del Sinister Noise è un intento nobile nell’ipocrita scena musicale capitolina (dove spesso si bada più all’outlook che al tanto acclamato Rock & Roll) e l’idea di presentare in cartello concerti appetibili ne esalta l’identità underground.
Già il fatto che sia collocato nel quartiere famoso a Roma per le discoteche commerciali suona come una provocazione bella e buona del tipo “io sono piccolo e forte, voi tanti ma non mi spaventate”.
Il tema della serata è l’heavy psych, un sotto genere nato dalla costola rosicchiata degli MC5, una diversa chiave di lettura del proto-punk di Detroit.
La prima di tre band ad esibirsi, i Last Movement, suonano un energico rock dalle sfumature dark con una sola chitarra, giusto intro all’atmsofera noise. Suonano una quarantina di minuti davanti a non molte persone, poi si prepara il palco per la seconda band, i romani Black Rainbows che sono di casa al Sinister Noise.
Nell’attesa si riemerge alla quota zero del locale e per rimanere in tema la carta delle birre prevede la mitica Spaceman, un’ottima birra piuttosto alcolica, giusto quello che ci vuole.
Pronti e via, partono i B.R. e da subito lasciano intendere il mood piuttosto energico della loro musica. Il look del cantante/chitarrista non mi lascia dubbi, è la versione romana di Ted Nugent di Cat Scratch Fever così come la potenza ritmica. Viene accompagnato da basso e batteria in un vortice di rumori psichedelici mooolto heavy che in chiave live scuotono sempre. L’ombra del metal però sembra non dissolversi mai e in alcuni passaggi una chiave psych condita da virtuosismo blues avrebbe innanzitutto reso il repertorio più vasto e variegato.
Finita l’esibizione ci si prepara ad una rivoluzione strumentale sul palco, raddoppiano gli elementi della band e in posizione centrale del backline a mo’ di altare viene portato un moog, qui si che si fa sul serio allora.
Gli headliner, I Farflung, sono una band di Los Angeles in attività da ben 15 anni anche se ha subito molti cambi di formazione e uno stop lungo 6 anni. L’ultimo disco risale al 2008 e la loro carriera seppur rimasta nei meandri dell’underground è di tutto rispetto nella scena Space Rock.
Cominciano e per tutto il tempo dell’esibizione a farla da padrone è senza dubbio quel moog, così affascinante e misterioso, che sembra parlare la lingua di un altro sistema solare. Tommy Grenas, il cantante, dopo tre pezzi accusa momentaneamente un qualche problemino di voce che poi risolve per riprendere le redini della navicella moog alla scoperta di nuovi pianeti lontani.
La serata giunge al termine e anche per questa volta tanta buona musica non è mancata, peccato solo che tante persone continuino a snobbare questa controcultura che si sta evolvendo sotto traccia.
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