«

»

apr 08

Deerhunter – Halcyon Digest

Colpi metallici ed una apertura melodica ci introducono al nuovo lavoro dei Deerhunter, da Atlanta, Georgia. Halcyon Digest segue di qualche anno Microcastle (ed il contemporaneo Weird Era Cont.) e suona leggero come una piuma ipnotizzante mentre scivola lentamente verso terra. Non vi fate impressionare dai titoli dei pezzi: Earthquake è un terremoto morbido, quasi al rallentatore, in cui gli oggetti non cadono ma restano sospesi in assenza di una qualsiasi ombra di gravità. Siamo molto lontani dalla nevrotica follia di Cryptograms, con cui Bradford Cox (voce e chitarra), Moses Archuleta (batteria), Josh Fauver (basso) e Lockett Pundt (chitarra) ci avevano deliziato qualche anno fa. Dont’Cry sembra accentuare la dimensione onirica dei Deerhunter, l’elettricità come elemento discriminante rispetto a quanto Bradford ha avviato con il suo progetto Atlas Sound. Che visto al Primavera Sound dello scorso maggio non è che ci abbia impressionato granchè. Troppi suoni costruiti, e lui da solo sul palco a dannarsi l’anima ed il corpo. Qui invece c’è l’immediata genuinità di Revival, costruita alla perfezione sulle partiture di un genio notevolmente avanti rispetto alla mediocrità contemporanea. La conclusione sospesa ferma tutto come farebbe un kit kat durante una pubblicità in tipico stile anni’90. Che poi è il periodo in cui sembra prodotto questo disco a cui ha contribuito l’etichetta inglese 4AD che si è guadagnata l’esclusiva sui Deerhunter dopo qualche anno di condominio con la Kranky. Nel frattempo Sailing introduce un lungo lento di riflessione, abbandonato alla nostalgia di mari lontani e di posti vissuti ma poi abbandonati. Non certo il miglior pezzo del disco.
Poi lo stacco improvviso di Memory Boy suona la sveglia. Il trillo sembra quello delle campane domenicali, ma l’ambientazione è sostanzialmente inglese, con scintillii argentei onnipresenti lungo la scampagnata. Qualcosa di più robusto lo troviamo nel pezzo successivo, Desire Lines, dove riconosciamo immediatamente il timbro dei primi Deerhunter, quelli trasognanti come non mai. I riff gentili ma decisi stridono con la dolcezza dell’arpeggio e della parte vocale, creando un effetto contrasto di cui Cox approfitta per l sui incursioni lisergiche. L’arpeggio finale sfonda quota tre minuti creando disturbi visivi simili a quelli di qualche album fa. E che risuona molto simile ai suoni dei Brian Jonestown Massacre. Ma con meno cattiveria e più colori. La conferma arriva da Basement Scene, di chiara impronta barrettiana, con un effetto eco da risucchio attentamente studiato durante il mixaggio. A cui ha contribuito anche Ben Allen, che dopo aver aiutato gli Animal Collective a produrre l’ultima meraviglioso album, passa anche da qui per fare un saluto. L’inizio di Helicopter invece risentire dell’ascolto di Diplomat’s Son dei Vampire Weekend, senza soluzioni afrobeat, ma con vaste aperture all’orizzonte che sommergono i beat elettronici. La chiusura come una fontana delle meraviglie appena scoperta. E’ strano ma il pezzo successivo è proprio Fountain Star, solo che al posto dell’acqua sgorgano note stranianti ed ossessive che ci portano sul piano inclinato dove i Dandy Warhols giocavano ai tempi di Come Down. E lì vi assicuro che giocavano duro.
Per la chiusura i Deerhunter si affidano ad una Coronado che sembra sfuggita uscita dal repertorio degli Strokes, con la voce gracchianate di Cox in versione Casablancas. Con qualche sax in più aggiunto da Bill Oglesby. E poi l’outro di He Would Have Laughed, che ci accompagna in sala di decompressione prima di abbandonarci a vagare nella nostra quotidianità terrena. E ci scarica direttamente da una porta di servizio in Hazel Street, dove i Deerhunter sembra essere rimasti intrappolati tutti questi anni. Volutamente.

Lascia un Commento

Il tuo indirizzo mail non sarà pubblicato!

Puoi usare i seguenti tag HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>