A Roma piove da una cosa come 72 ore. E’ molta l’inerzia da vincere per uscire di casa e affrontare il traffico della città sdrucciolevole, ma lo facciamo volentieri per i nostri beniamini ODP, la formazione reggiana che emoziona da anni ormai me e il buon Closer. Eravamo insieme allo stadio Picchi di Livorno nell’estate del 2009 – amalgamati da un solare Gallagabro – a vederli suonare per Kraftwerk ed Aphex Twin; ricordo che quella sera parlai per tutto il tempo imitando il “tono metallico standard” del frontman Max Collini. Il suo carisma si esprime da sempre nel coraggioso ostentare quella sua monotonia timbrica da cui fui stregato. Lo ritrovo (oggi Closer non c’è) in ottima forma tre anni dopo, alfiere di un terzo album, Gioco di Società, che sta tornando a fargli girare l’Italia assieme ai – è proprio il caso di dirlo – “compagni” Enrico Fontanelli (moog, yamaha & drum machine Roland) e Daniele Carretti (basso, chitarra, wurlitzer). L’ultimo lavoro mi viene somministrato per intero e lo ascolto – per la prima volta – con grande curiosità. Gli aneddoti personali cui Max ci aveva abituato mantengono la stessa retorica rossa e nostalgica, ma stavolta l’autore sembra annullarsi maggiormente nei suoi testi, parlare un po’ meno di sé – pur sempre narcisisticamente per sé – ma rivolto all’altro da sé. Se Kappler fosse ancora vivo gli avrebbe fatto passare di nuovo l’esame di maturità. Si passa naturalmente anche per le vecchie glorie (in ordine sparso Robespierre, Cinnamon, Piccola Pietroburgo, Cioccolato I.A.C.P., Lungimiranza, Onomastica, Dove ho messo la Golf) che il pubblico accoglie con calore, dando vita ad autentici momenti da curva sud – ma i nuovi brani, specie Piccola Storia Ultras e Respinti all’uscio, hanno già il sapore degli instant classic. In più, il fattore novità gioca stranamente a loro favore, perché lo storytelling del Collini, oratore e attore dotato, ti persuade, ti mesmerizza, ed ecco che i pezzi paiono quasi confidenze destinate alle sole tue orecchie. Il commento degli strumenti, rigorosamente e anacronisticamente tutti di classe analog, anche nei momenti più coinvolgenti non ruba mai la scena, trasformando il concerto in qualcosa di intimo, dal sapore kraut-teatral/cantautoriale. La sensazione che porto con me a casa è di un corroborante e analgesico tepore. Un toccasana per l’umidità di questi giorni grigi di non primavera.
PS: paga-le, paga-le, paga-le-bollette, Carlo-Alberto, paga-le-bollette!
Qualcuno sa perché.
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