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apr 08

Holy Fuck – Latin

Già solo il nome è da applausi sinceri. Se poi si va a sentire il disco c’è solo da scorticarsi le mani per almeno 30 minuti. Perché l’eco delle vibrazioni sonore pompate da Latin è poderoso almeno quanto una scossa tellurica di grandi proporzioni, come quelle che scuotono ogni tanto il Cile od altri Paesi dell’America Latina. Ma perché poi dico questo? Di sonorità propriamente latine non se ne vede la minima traccia perché Brian Borcherdt, Graham Walsh, Matt McQaid e Matt Schulz continuano a scavare nello stessa buca in cui li avevamo lasciati tre anni fa, dopo l’immenso LP che ce li aveva fatti conoscere. Solo che hanno cambiato gli strumenti di lavoro ed invece dei picconi forniti dalla Dependent adesso utilizzano le vanghe prese in prestito con la Young Turks, senza risentirne minimamente. Anzi, puntando a scavare sempre più giù, verso il centro di questo pianeta assopito,  alla ricerca delle nervature che accuratamente sollecitate lo sveglierebbero dal suo lungo torpore.
Il risveglio di 1MD è un intro ambient molto serioso per le abitudini giocherellone della band di Toronto. Opportunamente mixata con Red Light, il cui ritmo inizia a scuotere le placche tettoniche. Elettronica sperimentale con molte dosi di rock come la muscolarità del basso e della batteria fanno intendere. Sembra quasi di assaporare dei Royksopp reduci da un Festival tipo il Coachella. Dove effettivamente gli Holy Fuck hanno già suonato riaffermando la loro predilezione per la dimensione live. Sono pochi i gruppi in grado di fare elettronica suonando tutto dal vivo senza uso di suoni già programmati e registrati. Loro si divertono così. E noi anche, ascoltando la traccia che dà il nome, od almeno parte di esso all’album: le dolci tastiere di Latin America fanno da contraltare alla potente sessione ritmica, ammorbidendo di molto il tono. Ripetendo il mantra, ipnotizzando sensorialmente l’ascoltatore, fino a farlo entrare in Stay Lit la cui architettura è più asettica e matematica, quasi simmetria sonora come la intenderebbero i Battles.
E poi, signori, c’è sempre il super pezzo.La carica di Silva & Grimes, il rombo dei motori prima della partenza, il supersonico slancio verso gli inferi. Tanto per ricordare pezzi che hanno fatto storia come The Pulse e Lovely Allen dell’album precedente. Quante cose si possono udire nelle viscere della Terra. Un pizzico di psichedelica nel passaggio tra gli strati della crosta terrestre. C’è del marcio e lo sporco che circonda  SHT MTN ce lo ricorda: suoni impazziti che si schiantano contro le rocce più dure: una discontinuità di Gutenberg di difficile digestione. Che appena superata ci fa scivolare alla velocità sbalorditiva di Stilettos: una corsa pazza, furiosa ed amfetaminica verso il nucleo esterno esorcizzata dagli effetti di Borcherdt e Walsh che grandinano come un diluvio di lava su tutta la superficie senza soluzione di continuità.
La prova per gli Holy Fuck è pienamente passata e poco conta che il loro nome continui ad essere bannato dai cartelloni degli States per essere sostituito con un veramente buffo “holy buck” (tsk, capitalisti…). La meraviglia sonora di Lucky scende a valanga sulle polemiche e lo sberleffo finale di P.I.G.S. ci fa approdare al nucleo interno della nostra ricerca. La scoperta è il groove 2.0 che ti investe come una palata in piena faccia. Il nervo della Terra è stato sollecitato: adesso vi tocca solo ballare.

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