Abbiamo seguito i nostri musicisti suonare, sudare e litigare (spesso tra di loro) nella difficile realtà di Crotone…abbiamo monitorato con attenzione costante la scena musicale romana, sempre frizzante e mai banale…abbiamo osservato gente con le palle quadrate suonare a Firenze e Milano…siamo andati fuori dalla staccionata montuosa della nostra nazione, siamo finiti in Belgio per vedere un Festival immersi nella melma (ed io ci ho rimesso un paio di adidas…). Ma il mondo fortunatamente è grande, non finisce a Torretta di Crucoli, non si ferma dopo le porte di Roma, e nemmeno alle colonne, di Ercole o di Capocolonna che siano. Perché nella vita c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire ed assaporare, vivere e conquistare. Ed allora visto che ci siamo, che ne dite di un concertino a Washington, District of Columbia, United States of America?
Si, ci sono ricascato. Sono di nuovo in viaggio alla ricerca di qualcosa che non so nemmeno io cos’è. Si può chiamare in tanti modi diversi, lavoro, esperienza, maturità…io la chiamo voglia di vivere. Ma se volete un saggio sul viaggio come metafora della vita chiedete a Kerouac, non a me. Lui vi risponderà con un libro, anzi, il libro. Lasciate perdere la bibbia, è On The Road il nostro vangelo. E proprio on the road abbiamo vissuto nei primi 3 giorni di permanenza negli States (anzi, sono 4, ma non ditelo alla reception dell’hotel…). E quindi è dall’hotel che la sera del 15 parte la caccia al rock’n’roll made in USA.
Partiamo dall’albergo verso le 21, proprio l’ora prevista di inizio delle danze. Dopo un breve intermezzo cinematografico su New York Avenue, dove abbiamo rinunciato ad una casa, causa incompatibilità ambientale (sembrava una via di mezzo tra un film di Spike Lee e “Chi non salta bianco è”) siamo approdati qui, dopo varie rinunce per esaurimento posti. All’apparenza anonimo, il Black Cat nasconde al suo interno succose sorprese per gli adepti del rock. Paghiamo i 12 $ i entrata, ci timbrano le zampe come mucche; tranne Rocco, a cui mettono due X grosse come stigmate sul dorso delle mani, perché lo trovano senza passaporto, lasciato sulla poltrona dell’albergo a prendere aria in mezzo alla confusione imperante di questi giorni…la fiscalità yankee non lascia scampo in patria, specialmente se sei straniero e giri senza documenti appropriati: il risultato è che Rocco non può bere, e l’occhio vigile della sorveglianza lo seguirà spietatamente come un big brother alla disperata ricerca di una infrazione annunciata…
Le scale di fronte a noi conducono immediatamente alla sala superiore dove, aperte le porte, si apre una magnifica sala. Spaziosa, areata, di fronte ad un palco dalle adeguate dimensioni; sulla destra e sulla sinistra i banconi per dissetarsi da una settimana di duro lavoro per in capitoliani, e da quattro giorni infernali per noi profughi accampati come sardine. Ma qui c’è musica della madonna, il suono magnetico che si diffonde intorno è una calamita immediata. Tre ragazzi e un tipo un po’ più grosso con un camice bianco e, sotto, la maglia nera dei Melvins. E già ci siamo capiti. Chiunque conosca questo gruppo storico, è già i per sé una garanzia. Si chiamano Points: segnatevi questo nome, questi spaccano. La poca gente presente viene sommersa da una colata lavica di sonorità magmatiche che scendono come una lava bollente sui nostri corpi ancora amorfi, per modellarli a stelle e striscie. Un 7’’ omonimo, rock’n’roll di valore assoluto: dentro ci stanno i riff potenti e ipnotici di Geo, la martellante batteria di Cobrah ed la misurata tastiera di Rebecca. Dietro di loro, il tizio in camice bianco: il Dr. Mayers di cui sopra, che suona uno strumento curioso chiamato Theremin, una roba elettronica progettato per essere suonato senza bisogno di essere toccato. Rende colui che lo suona un personaggio fiabesco, a metà strada tra un direttore d’orchestra ed il mago Houdini. Si avvicinano abbastanza pericolosamente al punk dei tardi’70, sfiorando quella oscenità e furore tanto di voga in quagli anni, specialmente in episodi come I’m Not Your Man dove la matrice punk sorpassa a destra e prende il largo molto facilmente. Rock’n’Roll No Rules perfora le tempie con una certa facilità e lo show si segue con molta attenzione ed una notevole dose di curiosità. Mi appassionano da subito, ma al banchetto ci sta solo il 7’’che per i prossimi tre mesi potrei inserire solo nella lavastoviglie…
Le birre si susseguono con una certa frequenza, e, da bravi italiani, vengono passate di nascosto anche a Rocco, che ne approfitta volentieri. Il nostro bravo “picaro”(zingaro per gli amici…) non sa cosa lo attende: appena passata la porta che conduce fuori per andare a fumare una sigaretta, lui e Closer (nel frattempo ribattezzato “The Family Man”in onore alla sua stoicità nell’affrontare la grave crisi dei mutui americani che ci costringe ai salti mortali per trovare una casa, ma soprattutto perché dopo la dipartita di Frankie non era più rimasto nessuno da prendere per il culo) vengono fermati da un tipo della sicurezza del locale. Rocco e le sue stigmate sono l’indizio, la birra è il corpo del reato consumato (oltre ad essere la prova) e Closer è indiziato per favoreggiamento. Il processo dura 45 secondi la sentenza è un “Fuck off” che non c’è bisogno di tradurre ed i due vengono sbattuti fuori dal Black Cat. Chiara segue a ruota.
Penserete che questa sia la fine della storia…le luci tra la 18esima e U street illuminano di sbieco tre figure che si allontanano nella oscurità di un sabato anonimo, tra auto fanno su e giù indifferenti…. Ed invece non avete fatto i conti con Closer. Stasera non mi possono bloccare, nemmeno Petreus autorizza un apposita caccia all’uomo…non possono fare nulla contro questo sabato, non possono fare nulla contro lo spirito del rock che ormai albeggia dentro di noi. Splendiamo come gli eletti di Matrix ed accechiamo la gente nella notte americana. Arrivati all’incrocio della 18esima decidiamo di non dargliela per vinta. E dopo un ragionato piano di battaglia, mi lancio a tutta velocità verso l’albergo, supero una seina di isolati, entro, recupero il passaporto del “picaro” e mi rifiondo a tutta birra verso il locale. All’entrata spieghiamo la situazione, e provo addirittura a rilanciare richiedendo la birra sequestrata e nel frattempo già scolata dall’intrepido buttafuori. Riusciamo a rientrare, ma per la birra non c’è nulla da fare. Poco male, siamo di nuovo dentro mentre si conclude lo show dei The Selmanaires. Che fanno abbastanza schifo, e questo ci consola della oretta persa nel frattempo. Rocco viene ribloccato dentro il bagno mentre cerca di cancellarsi le X per potere finalmente agguantare pinte liberamente. Esasperazione ed altra discussione, ma a questo giro il passaporto fa sbiancare il tizio della sicurezza che lo riconsegna tra un mare di scuse. Le vicissitudini provate ci convincono che bisogna dare una bella lezione agli americani: decidiamo di berci tutto il locale. Quindi, mentre le birre fioccano come la neve a Natale, sul palco entrano i Black Lips.
Lorenzo mi consigliò di andare a vederli. Lorenzo non fallisce mai. Originari di Atlanta, Georgia, i Black Lips sono noti per i loro show elettrizzanti, alternative rock infarcito di furia punk e condito con una fine salsa blues. Si, ormai parlo come fossero hamburger. Deformazione alimentare, che d questi giorni ci sta tutta. Hanno un boato di fans lungo tutto il territorio americano ed anche qui a Washington, stasera, c’è un sacco di gente venuta appositamente per vederli. Dopo il debutto omonimo del 2003, ecco nel 2006 Los Valentes del Mondo Nuevo. Il loro nuovo album, Good Bad Not Evil, è uscito quest’anno per la Vice Records, e contiene il pezzo tormentone dei nostri primi giorni di permanenza oltreoceano: O Katrina ha un attacco di basso fenomenale, opera di Jared Swilley. Roba giunge dei bei tempi, sembrano i Mudhoney imbevuti di siero blues ad alta gradazione. La creatività degli assoli viene inquadrata dal rimo sostenuto dal batterista e vocalist John Bradley. Lean è più spostata verso il noise grazie alla vena rumoristica delle chitarre di Cole Alexander e Ian Brown, naturalmente l’ex membro dei Renegades, non certo il divino leader degli Stone Roses. I pezzi più rilassati rendono più spessa la venatura blues, aumentandone il flusso e la portata come un fiume dopo precipitazioni copiose: Veni Vidi Vici lo dimostra immediatamente. It Feels Alright invece ha una notevole capacità di variare i tempi ed il ritmo all’interno di una stessa canzone, mantenendo una certa piacevole linearità, passando del rock al blues senza eccessivi sobbalzi. E’certamente un gruppo che sa stare sul palco, come dimostra l’affetto del pubblico ed il moto perpetuo in sala, in cui anche Chiara e Rocco restano coinvolti. Lock and Key è più ipnotica, spostata verso la psicadelia rock versione deluxe, di eccellente qualità. Ogni tanto spunta fuori un country che qui negli Stati del sud non fa mai tanto male: How Do You Tell A Child That Someone Has Died è roba da saloon, a mio padre piacerebbe sicuramente, magari inserita in uno di quei western che mandano le sere su Rete4…. Bad Kids è un fantastico ritornello molto facile da ricordare: ti si stampa facilmente in testa, mentre Step Up Right incalza con il suo andamento. Cold Hands non scherza nemmeno, è forse il pezzo migliore dopo O Katrina e scuote la sala come un frullatore.
A fine show ci rendiamo conto che è l’una, siamo molto lontani dall’Italia anche per ciò che concerne gli orari. Si attende un po’ mentre il locale si svuota, abbiamo un conto in sospeso con il Black Cat e lo saldiamo con gli autografi dei Black Lips, che a turno passano a firmarmi il cd. Mi annunciano che a maggio prossimo dovrebbero fare una capatina a Roma, e gli dico che sarò contento di passare a rivederli. Poi scompaiono dietro i loro strumenti, mentre il dj rallenta i ritmi, abbassa i volumi e chiude il piano superiore. Ho detto piano superiore apposta, perché al piano inferiore ci sta ancora musica, intravedo un altro paio di sale affollate da quelle parti, ma siamo troppo stanchi per restare. Ecco il buttafuori di prima, ci saluta e chiariamo, nessun problema, ho intenzione di fare di questo posto la mia casa per i prossimi mesi. Specie se la gente che ci viene a suonare è di questi livelli…La notte di DC è calma e tiepida, il vociferare della gente per strada è la sola nota che si sente mentre ritorniamo verso casa. Domani è un altro giorno e lo squarcio suggestivo di Georgetown inizia ad intravedersi all’orizzonte, pronto ad accoglierci lovely…
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