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mag 03

Voxtrot + The little ones + House and Parish @ Black Cat

The little ones

Stessa spiaggia e stesso mare. Diciamo anche stesso locale, ma questa volta ospiti ed accompagnatore sono diversi. Altro giro, altra corsa, è questo è il turno di Ignatius, famoso columnist del Washington Post nonché mio mentore nel cammino qui in DC. Si, ci porto pure lui al Black Cat, diciamo che ormai sono parte dello staff del locale, ed aspetto la mensilità: l’unico problema è che questi non lo sanno.
Anche questa volta vi dò il resoconto delle rinunce di questa settimana: si tratta dei Mondo Generator (già recensiti per Voi l’anno scorso) e dei Turbonegro per uno show ad alta densità di rumore. Esigenze fische (leggi dormire!) imponevano l’assenza forzata.
Dopo un breve rientro a casa causa dimenticanza del passaporto, entriamo giusto in tempo per lo show dei simpaticissimi House And Parish. Simpaticissimi sia per il nome, sia perché sono di NY e sia perché lo dimostrano. Nel senso che qui dentro sono quelli che fanno più casino di tutti, quando suonano e non. Ma badiamo al sodo: chitarre in primo piano, sonorità madchesteriane, con riferimenti primari i fratelli Gallagher ed una certa predilezione per la melodia. Formatisi quest’anno J. Gnewikow (chitarra), B. Malone (batteria), J. Herguth (voce e chitarra) e S. Winegard (basso) hanno dei nomi da perfetti sconosciuti, ma per i più attenti osservatori, tutti e quattro bazzicavano chi qui e chi là per tutto il territorio americano: Jason con i Promise Ring, Brian con i The Gloria Record, John con i The Love Scene e Scott con i Texas Is The Reason. Il loro show è preciso come un orologio svizzero, e con pezzi molto emo come Standardesque e Pristine Fields, contenuti nel loro primo Ep One, One-Thousand, che dovrebbe uscire a novembre per le etichette Arrco e Belle City Pop, molto appetibile per le gentili donzelle che affollano il locale stasera fissando bramosamente il palco. Il rock che esce fuori dalle casse è miele irresistibile per le tante apine che in questa serata affollano il locale, incuranti dello sporco impossibile che accompagna alcune tracce (What I Am Still Waiting For e Summer Programme) e che rende le sonorità più vicine al territorio indipendente. I ragazzi se la cavano talmente bene che, avvicinatisi immediatamente al bancone dopo la fine dello show (cosa che faranno ripetutamente per tutta la serata) si prenderanno volentieri i complimenti di Ignatius.
Lo stesso Ignatius invece non sarà per niente contento dello show dei losangelini The Little Ones, le cui sonorità colorate non lo conquistano per niente. Anche Ed Reyes (Voce e Chitarra), Brian Reyes (Tastiere e Basso), Ian Moreno (Chitarra), Lee LaDouceur (Tastiere, Basso) e Gregory Meyer (Batteria) ci propongono il loro primo Ep, Sing Song uscito quest’anno per la Astralwerks Records. Sonorità sixtiees con curiose alchimie orientali, che vengono tessute sul palco come se avessero l’uncinetto al posto dei normali strumenti: il telo che esce fuori dalle loro mani è un arcobaleno di colori candido come una maglia di lana appena passata sotto il ferro da stiro. Face The Fact è esemplare: l’intro suonato alla tastiera sembra provenire da un suonatore di flauti seduto davanti alla sua casa in una strada di Shangai, poi la voce di Ed ci fa attraversare il Pacifico ed eccoci qui a danzare allegramente sopra un tipico sound anni ’60. Anche High On A Hill è un bel pezzo, e la voce di Ed si arrampica volentieri su vette elevate con ottima qualità, mentre la stilosa Heavy Heart Brigades dimostra come cambiare marcia e tempo per i The Little Ones non sia un problema. Gli americani, si sa, adorano le marce automatiche, e le macchine full optional. Il modello Little Ones contiene anche curiose tastierine orientali che vengono attivate come tergicristalli mentre attraversiamo Lovers Who Uncover. Tempo previsto: ritmo ballabile, melodiche schitarrate a rovescio sugli altopiani. Cha Cha Cha e Oh!Mj sono sicuramente i pezzi più prorompenti, sia per capacità di entrare con un atterraggio morbido in altre dimensioni (ed altri anni, visto che qui l’influenza dei Beach Boys è troppo evidente) sia per aggressività di suono ed inventiva. Insomma, un bel gruppo da ballo e da compagnia, sicuramente tra i più coinvolgenti che ho visto qui al Black Cat.
Ignatius prima di mollarmi si fa un hamburger al piano di sotto, lo accompagno per una sigaretta e facciamo due chiacchiere con Alan. L’argomento del giorno è il rogo ad Adams Morgan, un appartamento si è polverizzato in un niente, visto che qui le case sono per la maggior parte in legno ed inoltre i ritardi e la mancanza di idranti non ha permesso di contenere le fiamme. Scopriamo che si trattava dell’appartamento di Alan, attualmente quindi senza fissa dimora. Inoltre pongo sul tavolo delle discussioni il sold out di un gruppo svedese che seguiamo con moooolto interesse da qualche anno e che verrebbe tra 2 settimane: Alan sembra possibilista su un extra ticket per il sottoscritto….speriamo bene…
Volatilizzatosi Ignatius (che forse se la sentiva…) eccomi di fronte ad i Voxtrot. E qui sono dolori. Il gruppo di Austin non convince per niente. Sarà perché il cantante Ramesh Srivastava non stava troppo bene (il gruppo ha infatti annullato alcune date successive), sarà perché non mi piacciono le loro sonorità, sarà perché mi sono scocciato di sentire tutte queste bande pop ma allo show dei Voxtrot mi sono rotto i coglioni. La band di Austin, TX, composta da Jason Chronis, Mitchell Wayne Calvert, Matt Simon, and Jared Van Fleet ha appena pubblicato il suo primo album, omonimo dopo il successo del primo Ep, Raised by Wolves. Pezzi carini ne hanno: la sussultuosa Wrecking Force esalta le capacità canore di Ramesh ed il percorso in pavè per lui preparato dagli strumenti dei compagni. Firecracker e Missing Pieces scivolano lisce come una tavola da surf sulle onde dell’oceano, ma tutto sembra troppo piatto e gli sbadigli ormai non si contano più. Inoltre quando cala il ritmo l’effetto ninna nanna di alcune canzoni mi fa retrocedere di posizioni come il Crotone dello scorso anno: dalle prime file dove mi ero posizionato per fare le foto finisco in centro pista, poi mi sposto vicino al bancone, poi mi metto seduto su uno sgabello, quasi rassegnato, e poi quasi sulla porta in attesa di scendere le scale che porteranno (si spera per breve tempo) verso gli inferi della C1…
La fine è quasi una liberazione ed inizio a pensare che per le seratine leggere possa bastare così, abbiamo già dato abbastanza in questi giorni. E’sempre giusto un po’ di riscaldamento prima che il gioco inizia farsi serio e credo che adesso sia arrivata l’ora di alzare il tiro ed affrontare i primi big match della stagione. I sold out si avvicinano, i nomi storici sono già sulla pista di atterraggio del Dulles Airport di Washington, Closer riscalda i muscoli e prepara la tela nella quale imprigionare le prossime vittime da consegnare ai suoi lettori. Get ready…

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